Live Report – Gods Of Metal 2012 – Giovedì 21 giugno

Di Daniele Peluso - 10 Luglio 2012 - 16:30
Live Report – Gods Of Metal 2012 – Giovedì 21 giugno

Sotto un sole dei meno clementi inizia il primo giorno dell’attesissimo Gods Of Metal 2012, uno dei festival estivi più attesi dell’anno, il più amato, odiato e chiacchierato. Come per l’edizione precedente il luogo prescelto è l’arena fiera Rho, ovvero uno dei grandi parcheggi antistanti ai padiglioni dell’area.
Il lungo tragitto che porta dai due parcheggi auto aperti al pubblico dà subito un assaggio di quelle che saranno le fatiche della giornata, che per alcuni inizia con un po’ di stizza dopo aver scoperto che gli unici posti auto disponibili in questa cattedrale nel deserto costano 15€ al giorno. Il pensiero di CHI salirà sul palco renderà queste pene più soppportabili, anche se i più sfortunati devono fare a piedi più di un chilometro e mezzo sotto un sole cocente per raggiungere il luogo del concerto. Lo sanno bene i venditori ambulanti più o meno abusivi che tentano di vendere agli spettatori che arrivano alla spicciolata ogni tipo di bevanda facendo buoni affari. Ricordare ai potenziali clienti che una volta entrati all’interno dell’arena non si potrà più uscire e rientrare a piacimento e che le bevande costeranno il doppio sembra un’ottima strategia di marketing. Chi non vende bevande vende maglie “tarocco” di ogni tipo in un mare di bancarelle colorate che tengono compagnia ai metallari durante la lunga marcia.
Il numero man mano maggiore di agguerritissimi bagarini indica che le casse sono sempre più vicine, mentre i più intraprendenti di loro sono appollaiati a pochissimi metri dalle casse e intercettano con un “biglietti?” ogni potenziale avventore, con buona pace dei più che tolleranti addetti ai lavori.

L’arena fiera Rho è un non-luogo abbastanza facile da raggiungere, dato che si trova in prossimità dall’autostrada, una fermata della metropolitana di Milano sbuca praticamente davanti alle casse e a circa 200 metri dall’ingresso vi è l’omonima stazione ferroviaria. Una volta raggiunto l’ingresso i non molti metallari mattutini si incamminano tra le serpentine di transenne messe per arginare la gran folla che, si presume, si farà viva nel tardo pomeriggio per vedere dopo dieci anni di attesa lo show dei Manowar. Gli ingressi sono divisi in base alla tipologia di biglietto posseduto, in modo da agevolare l’ingresso ai detentori di Pit Ticket dando loro la precedenza. Superati i tornelli i ragazzi devono affrontare l’ultima prova prima di poter entrare all’interno dell’arena: come per la maggior parte dei concerti non possono essere introdotte bottigliette d’acqua provviste di tappo, per cui i poliziotti perquisiscono zaini e borse in cerca di bevande “non conformi”. I ragazzi attendono con pazienza e in modo ordinato il loro turno ed entrano all’interno dell’arena abbracciando un davanzale bottiglie gocciolanti.

Una volta entrati all’interno dell’area concerto i ragazzi, come dei felini curiosi messi in una casa nuova, iniziano l’esplorazione dell’area e dei comfort che offre: l’occhio cade subito su due grandi aree doccia al centro dell’arena che saranno estremamente utili per evitare che il sole faccia davvero male. Il grosso atrio-tettoia antistante agli ingressi dei padiglioni è, assieme agli ombrelloni degli stand e dei punti ristoro, l’unica zona d’ombra dell’arena e viene subito presa d’assalto dai ragazzi che, con i loro asciugamani da mare colorati e le loro stuoie, la trasformano in una sorta di spiaggia di cemento.
I bagni a disposizione sono numerosi e hanno il pregio di evitare code; la nota negativa è che sono chimici e rendono le cose difficili soprattutto alle fanciulle, anche se durante la giornata una ditta specializzata ne effettua più volte la manutenzione. Sotto il palco una prima transenna divide il pit fotografico dall’area pit, mentre una seconda divide l’area pit dal resto dell’arena. Una tribuna sopraelevata posta a lato dell’arena e a breve distanza dal palcoscenico ha il nobile intento di permettere a chi ha delle difficoltà motorie di vedere in modo adeguato il concerto, anche se la mancanza di una copertura dà in pasto i suoi utilizzatori al sole cocente, ragione per cui non molte persone la utilizzano.

Reportage a cura di Stefano “Elrond” Vianello, Silvia Graziola e Damiano Fiamin.

 

 

Tocca ai Clairvoyants la prova del fuoco di aprire il primo giorno di Gods Of Metal: la band comasca ne ha fatta di strada da quando, nel 2000 con il nome di The Clairvoyants, debutta come tribute band degli Iron Maiden. Il progetto ha un successo tale che nel 2007 viene presa la decisione di osare di più proponendo brani propri, ed è in questo modo che nasce una sorta di alter ego della band, che si differenzia dal gruppo-tributo per la mancanza del “The” all’interno del suo monicker.
La band sfrutta questa importante vetrina musicale per dare un assaggio di quel che è il suo secondo studio album fresco di pubblicazione, “The Shape Of Things” e per rispolverare un cavallo di battaglia estratto dal precedente Word To The Wise, “Journey Through the Stars”.
Nonostante il gruppo si presenti sul palcoscenico con le migliori intenzioni, appare comunque un po’ intimorito e freddo al primo impatto, forse a causa di alcuni problemi tecnici dovuti ai suoni ancora da perfezionare che impediscono di affrontare il concerto con la spavalderia necessaria. Suonare per primi significa anche suonare davanti a poche persone, dato che la maggior parte dei metallari si è attardata o sta ancora esplorando l’area. Nonostante le condizioni avverse però, I Clayrvoyants vengono applauditi calorosamente dai non molti ragazzi presenti nel circle pit e dietro alle transenne, i primi temerari che non hanno paura del sole e di scoprire una nuova proposta interessante.

 

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Dopo un tutto sommato breve cambio palco entrano in scena gli Arthemis che in quanto ad esperienza non temono i loro concorrenti: la band è attiva ufficialmente dal 1999 e ha alle sue spalle ben sette full length con cui ha portato il suo heavy-thrash metal in giro per tutto il mondo. Il gruppo può infatti vantare numerose partecipazioni in alcuni tra i festival più blasonati europei e questo traspare nel modo con cui tiene il palcoscenico e si muove sicuro sulla scena.
La mezz’ora a disposizione della band è breve ma intensa e, dopo l’esecuzione di alcuni brani dal forte impatto come “Scars Of Scars”, la band utilizza una buona parte del tempo a disposizione per presentare il materiale del nuovo album, intitolato “We Fight”. La musica del combo veneto attrae sotto al palco un sempre maggior numero di ragazzi che arrivano alla spicciolata; i suoni appaiono migliorati rispetto al gruppo di apertura, seppur non ancora perfetti, e permettono agli Arthemis di utilizzare al meglio il tempo a disposizione.
 

 

 


Salgono sul palco gli HolyHell, band capitanata dalla carismatica cantante Maria Breon. La band ha all’attivo al momento solo un EP e un primo disco, uscito già ormai da tre anni. Nonostante l’afflusso del pubblico sia ancora limitato – il pit di fronte al palco, a parte uno sparuto gruppetto di ragazzi, è semi deserto – il gruppo mostra molta voglia di far divertire i presenti e si lancia nell’esecuzione dei propri brani. Vengono proposte in apertura Holy Water e Revelations estratte dal disco di debutto omonimo Holy Hell: Maria Breon sfoggia subito la sua potente voce cristallina trascinando nei cori i ragazzi presenti. La proposta musicale della band si rifà un po’ ai Within Temptation e ai Nightwish, molto sinfonica condita da qualche cavalcata power. C’è spazio anche per un brano inedito, Accept The Darkness, che apparirà sul nuovo EP Darkness Visible – The Warning in uscita proprio in questi giorni. A lasciare molto soddisfatti è il brano Wings Of Light che dal vivo rende molto bene e in cui Maria sfoggia una voce davvero incantevole, con la quale raggiunge note davvero molto alte senza alcuna fatica. Vengono proposte ancora Armageddon e Apocalypse, ma la più apprezzata dal pubblico rimane la cover conclusiva, una Holy Diver per ricordare il mai dimenticato Ronnie James Dio, che fa alzare al cielo tutte le mani del pubblico, soddisfatto appieno della performance della band americana.

Stefano “Elrond” Vianello

1. Holy Water
2. Revelations
3. Accept the Darkness (new song)
4. Gates of Hell
5. Wings of Light
6. Armageddon
7. Apocalypse
Encore:
8. Holy Diver (Dio cover)

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Sono da poco passate le 13 ed è davvero presto, troppo presto per far qualsiasi cosa con il caldo in grado di piegare ogni entusiasmo. Durante la mezz’ora di cambio palco, gli spettatori sciamano verso le zone d’ombra con la rapidità di formiche colpite a morte dal sole. Le affollatissime docce danno un po’ di refrigerio con il loro debole getto nebulizzato che evapora troppo in fretta, ragione per cui molti sfidano i responsabili manomettendo i rubinetti per aumentarne il getto, prontamente ripristinato dagli addetti. L’acqua non è potabile ma la sete e il caldo non fermano coloro che usano le docce per bere riempiendo le loro bottigliette senza tappo.
L’entrata in scena dei Cannibal Corpse porta immediatamente l’attenzione degli astanti sulle cose davvero importanti e li fa accorrere sotto al palco pronti ad assistere allo show del combo statunitense. La band di Fisher e soci non delude le aspettative e porta in scena un devastante spettacolo che niente sembra in grado di smorzare, fatto di energia e di headbanging furioso. I cannibali scelgono di rompere il ghiaccio presentando i brani di maggior impatto estratti dall’ultimo studio album della band uscito lo scorso marzo, “Torture”, per poi deliziare il pubblico con i più classici “Disfigure” ed “Evisceration Plague”, che sembra fatta apposta per fare headbanging. Paradossalmente, nonostante quanto stia avvenendo sul palco, gli spettatori preferiscono assistere allo spettacolo in modo ordinato. Vengono infatti tentati pochi e timidi tentativi di pogo, il che stride un po’ con quello a cui il combo di Buffalo, NY ci ha abituati e dal circle pit arrivano solo urla di incitamento, corna e applausi, per la felicità di coloro che amano guardare il concerto in tranquillità senza rischiare ammaccature nella mischia del pogo.
Nonostante i suoni talvolta ballerini causati dall’acustica non ottimale dell’arena lo spettacolo offerto è ottimo e la devastante chiusura con la doppieta “Hammer Smashed Face” e “Stripped, Raped and Strangled” toglie ogni dubbio, se mai ce ne potessero essere, su chi è il gruppo più brutale della giornata.

Setlist:
Demented Aggression
Sarcophagic Frenzy
Scourge of Iron
Disfigured
Evisceration Plague
The Time to Kill is Now
Priests of Sodom
Unleashing the Bloodthirsty
Make Them Suffer
Hammer Smashed Face
Stripped, Raped and Strangled

 

 

 


Tocca finalmente alla band più attesa della giornata (dopo il ritorno dei Manowar), salire sul palco: gli Unisonic di Michael Kiske e Kai Hansen. Il gruppo di Hansen e Kiske, mattatori del metallo che verso la fine degli anni ‘80 han dato il via a quello che poi tutti abbiamo conosciuto con il nome di power metal, sale sul palco del Gods Of Metal carico di energia, proponendo la canzone che ormai è diventata il loro inno e cavallo di battaglia, Unisonic. Da subito si può notare come ci sia una grande intesa tra i vari elementi sullo stage e come la voce di Kiske sia sempre all’altezza delle aspettative dei fan che lo ricordano ancora scorrazzare avanti e indietro sul palco insieme ai suoi vecchi Helloween. La platea pare apprezzare di buon grado la performace dei nostri che propongono una scaletta incentrata sul loro disco di debutto uscito da pochi mesi. Vengono proposte Never Too Late, King For A Day e My Sanctuary prima di sorprendere il pubblico con una “cover”, se così la si può chiamare, che fa correre tutti i ritardatari davanti alle transenne e cantare tutti insieme March Of Time. Nonostante la calura giornaliera e il sole a picco, la folla è carica e supporta bene la band. Tra un brano e l’altro Kiske si intrattiene col pubblico raccontando come siano passati ben vent’anni dall’ultima volta che è passato dall’Italia… ed era ora che tornasse aggiungo io! La performance continua con una fantastica Over The Rainbow, carica pathos e interpretata da un Kiske davvero in stato di grazia, seguono Star Rider, We Rise e l’immancabile finale aspettato ormai con ansia da tutti: I Want Out che fa davvero correre chiunque a saltare di fronte al palco.
Gli Unisonic sono una di quelle band che nella giornata di oggi ha fatto davvero la differenza: divertenti, freschi e pieni di voglia di suonare per divertirsi e far divertire.
Per alcuni istanti è sembrato di tornare indietro nel tempo e trovarsi di fronte a quella band che è stata (ed è ancora ma con elementi diversi) uno dei più grandi gruppi degli anni ‘80-’90, gli Helloween di Kai Hansen e Michael Kiske. Bravi ragazzi, continuate così!

Stefano “Elrond” Vianello

01. Intro: The Ride of the Valkyries
02. Unisonic
03. Never Too Late
04. King For A Day
05. My Sanctuary
06. March Of Time (Guitar solos)
07. Over the Rainbow
08. Star Rider
09. We Rise
10. I Want Out

 

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Agli Adrenaline Mob spetta un compito difficilissimo: riuscire a intrattenere gli spettatori che si sono appena allontanati da sotto il palco con gli occhi lucidi e l’adrenalina a mille dopo aver cantato a squarciagola, ballato e saltato sulle note di “I Want Out” con gli Unisonic. Il supergruppo che ha finalmente dato la felicità e la stabilità musicale a Mike Portnoy viene guardato come una bestia rara da studiare per la sua prima volta in Italia e obiettivamente la performance del combo americano viene accolto con meno calore delle band che lo hanno preceduto.
Gli Adrenaline Mob hanno solo una decina di brani originali in repertorio e propongono quindi quasi per intero l’ultimo album “Omertà”. Il disco, pubblicato lo scorso marzo, era stato accolto in modo tiepido dalla critica e dai fan ed ora ha una sua piccola rivincita, rivelando che i brani composti dal combo newyorkese sembrano studiati apposta per essere suonati dal vivo e quindi permettono a molti di rivedere i loro giudizi.
La band sceglie per rompere il ghiaccio due tra i brani di maggiore impatto dell’ultimo disco, “Psychosane” e “Feelin’ Me” mentre uno scatenato Russell Allen non si risparmia correndo e saltando senza sosta da un lato all’altro del palco. Nonostante questo però, complice il caldo, i brani tutto sommato “nuovi” e la complessità del genere proposto, una volta superata l’euforia iniziale il pubblico appare poco attivo e scarsamente partecipe: riparati dalle prime piccole ombre che iniziano ad allungarsi sul pit nascono spontaneamente alcuni piccoli bivacchi che danno la schiena al palcoscenico, mentre i lunghi sproloqui di Allen e Portnoy per ringraziare e presentare la band ottengono applausi minimamente paragonabili al gruppo che li ha preceduti.
La chiusura dell’esibizione spetta al pezzo da novanta di “Omertà”, “Undaunted”, che riscalda subito gli animi e alla cover dei Black Sabbath “The Mob Rules”, già presente nell’EP di debutto e, nonostante tutto, la band riesce a portarsi a casa qualche consenso in più, dimostrando che cosa è capace di fare dal vivo.

Setlist:
Psychosane
Feelin’ Me
Indifferent
Down to the Floor
Angel Sky
Freight Train
Come Undone (Duran Duran)
Believe Me
All on the Line
Undaunted
The Mob Rules (Black Sabbath)

 


Il sole sta cominciando finalmente a tramontare, ma l’atmosfera non accenna a raffreddarsi: il pubblico accaldato, infatti, comincia ad accalcarsi davanti al palco per assistere all’esibizione degli svedesi Amon Amarth.  I vichinghi capitanati da Johan Hegg sono rappresentanti della branca più “cattiva” della prima giornata del festival, secondo elemento costitutivo della triade estrema che, insieme a Cannibal Corpse e Children of Bodom, li vede contrapporsi alla muraglia heavy/power che caratterizza la scaletta del 21 giugno. Sul palco, un enorme Surtur circondato dalle fiamme si staglia davanti agli spettatori, simbolico rappresentante delle intenzioni devastanti del quintetto. Quando, senza troppi ritardi, il gruppo entra finalmente in scena, viene accolto con grande calore da parte del pubblico; nonostante la spianata di asfalto davanti alle transenne non sia certo satura, c’è un buono scambio di energie tra gli artisti e i fan. La scaletta vede una netta preponderanza di brani provenienti dalle ultime due fatiche della band, Twilight of the Thunder God e Surtur Rising, a cui vengono affiancati pezzi classici e immancabili provenienti dai precedenti lavori del gruppo come, ad esempio, Victorious March e Death in Fire.  La presenza scenica degli Amon Amarth non è delle migliori; tutto il lavoro viene affidato a Hegg e al suo innegabile carisma, mentre gli altri membri della band risultano alquanto statici. Il cantante si profonde in chiacchiere e incita il pubblico con veemenza, ottenendo ottimi risultati, soprattutto considerando che alcuni dei presenti si stanno ormai rosolando da sei ore e, probabilmente, sono preda di allucinazioni a sfondo mistico. Per un miracolo, orchestrato probabilmente da Thor in persona, una fresca brezza si alza proprio verso la fine dell’esibizione, permettendo a tutti di respirare e di spremersi fino in fondo, grattandosi l’ugola e salutando la band come meritava. Un’esibizione convincente, con una scelta di brani coraggiosa, funestata da una qualità del sono discontinua, che ha visto un’altalena tra gli alti e i bassi, che si divertivano a rincorrersi e surclassarsi alternatamente.  Poteva andare meglio, certamente, ma non possiamo che dirci soddisfatti dell’esito complessivo.

Damiano Fiamin

Setlist:
War of the Gods
Runes to My Memory
Destroyer of the Universe
Death in Fire
Live for the Kill
Cry of the Black Birds
The Fate of Norns
The Pursuit of Vikings
For Victory or Death
Victorious March
Twilight of the Thunder God
Guardians of Asgaard

 

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Rimaniamo nel lontano Nord e, dopo la Svezia, lasciamo che sia la Finlandia a rapirci con sonorità più feroci. Sul palco del Gods of Metal, infatti, fanno la loro comparsa i Children Of Bodom. L’inizio è subito martellante, con l’opener di Hatebreeder, Warheart. Passano gli anni, ma i bassi rutilanti e gli intrecci di tastiera sono sempre lì, pronti a catturare il pubblico e a farlo esaltare un altro po’, in attesa del piatto forte della serata. Ormai, la temperatura dell’aria e dell’asfalto hanno raggiunto livelli umani ed è possibile accalcarsi senza rischiare il collasso. L’impatto scenico è minimalista. Musicisti vestiti di nero contro un fondale dello stesso colore, con un’unica scritta che campeggia nell’oscurità. Evidentemente, questi ragazzi hanno deciso che sarà la musica a parlare per loro. Anche l’interazione con il pubblico è limitata ai tradizionali convenevoli e alle frasi standard che il 99% degli artisti esclama una volta saliti sul palcoscenico. C’è da dire, comunque, che la band non si risparmia. Soprattutto Laiho e Latvala si adoperano con dedizione per cercare di scuotere un pubblico un po’ letargico; sebbene ci sia chi canta e chi si muove, soprattutto fuori dal Pit c’è un coinvolgimento piuttosto basso. Non per mancanza di stimoli, che arrivano abbondanti grazie a una sezione ritmica infuriata, quanto, probabilmente, per un vero esaurimento fisico dovuto a una giornata troppo calda in un’ambientazione poco adatta a sostenere così tante ore di musica. Tutti coloro che, emersi dall’ombra, si sono posizionati davanti al palco, erano evidentemente mossi dall’impulso mentale di ascoltare i finlandesi, impulso che, sfortunatamente, non riceveva adeguata collaborazione da parte del corpo. Buona la scelta dei pezzi, piuttosto varia e coinvolgente, qualche piccolo problema a livello di impiantistica, con dei fastidiosi riverberi che graffiavano saltuariamente i padiglioni auricolari degli ascoltatori, specialmente quelli vicino al palco. Un’esibizione con qualche piccolo rimpianto; i CoB sono dei grandi professionisti e hanno saputo gestire una situazione non proprio congeniale, anche grazie a una certa abilità di “mestiere”, che gli ha permesso di superare alcuni momenti d’impasse senza che la prestazione generale ne risentisse troppo.

Damiano Fiamin

Setlist:
Warheart
Hate Me!
Silent Night, Bodom Night
Shovel Knockout
Roundtrip to Hell and Back
Needled 24/7
Everytime I Die
Deadnight Warrior
Angels Don’t Kill
Blooddrunk
In Your Face
Hate Crew Deathroll
Downfall
Are You Dead Yet?

 

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E infine giunsero i Manowar. Dopo dieci anni di latitanza dalla nostra penisola, i Kings of Metal tornano e sono in parecchi a esserne contenti. Senza giri di parole, è evidente che la maggior parte dei presenti attendeva con ansia di vedere di nuovo in azione De Maio e soci. Dall’ultima volta che avevamo avuto modo di ascoltarli, molte cose sono cambiate: dietro le pelli c’è Donnie Hamzik, che ha preso il posto del compianto Scott Columbus; inoltre, la band ha prodotto alcuni album di valore alquanto criticabile. Non sono pochi coloro che, anche tra i defender più oltranzisti, cominciano a dubitare del futuro del gruppo. Come a voler fugare questi dubbi, in orario quasi perfetto, la band prende posizione e attacca con una vera e propria dichiarazione d’identità: Manowar. Senza tregua e senza pietà, i quattro continuano inarrestabili per quasi un’ora prima di dedicarsi agli abituali convenevoli e salutare il pubblico di casa; un’ora in cui vengono riproposti i classici di sempre, che ripercorrono i fasti di una carriera costruita su basi decisamente solide. Basta vedere il pubblico per capire quant’è radicata la fede nel Vero Metal. Persone di ogni età si uniscono a Eric Adams per cantare a squarciagola i successi della band, realizzando quel senso di fratellanza nel Metallo che tanto spesso viene auspicato dai quattro Re. Batteria e basso godono di un eccesso di amplificazione che li porta, spesso, ad annullare con roboante arroganza i suoni più alti, rendendo difficilmente distinguibili i passaggi in esecuzione; un esempio su tutti,  lo strumentale Sting of the Bumblebee,  davvero indecifrabile in alcuni momenti. Colpa della strumentazione o dell’abitudine dei Manowar di alzare il volume oltre ogni limite concepibile? In ogni caso, il concerto non ne risente particolarmente, la voglia di partecipare supera i perfezionismi. Dopo una prima parte dedicata unicamente alla musica, i nostri decidono di dedicarsi all’interazione con il pubblico. Il dialogo poteva limitarsi a un normale scambio di saluti? Ovviamente, no! Ecco, dunque, che sale sul palco un giovane ragazzo scelto tra il pubblico che,  emozionatissimo, ha l’onere/onore di suonare la chitarra di Logan e di accompagnare la band durante l’esecuzione di The Gods Made Heavy Metal. Uno spettacolo edificante che, oltretutto, non sembrava orchestrato a priori. Se stavate soppesando i pro e i contro dell’acquisto di un pit ticket, potete aggiungere “vincere una chitarra dei Manowar” alla lista dei vantaggi. Agli strumentali e ai solo, si affianca un lungo monologo di De Maio, un lungo iato che ha sicuramente permesso a Eric Adams di riprendere fiato dopo un avvio tiratissimo. Durante il suo soliloquio, in un italiano un po’ forzato ma comunque apprezzabile, il bassista espone i capisaldi del manifesto programmatico del gruppo, aizza le folle contro i nemici del Vero Metal e dedica un pensiero al genitore scomparso e al defunto Scott Columbus. Applausi in abbondanza, anche per festeggiare lo scampato pericolo: vista l’introduzione, in scaletta avrebbe potuto anche essere inserita la discutibile versione italiana di Father. I brani tratti dagli ultimi lavori sono molto pochi e, generalmente, non hanno riscosso molto successo tra il pubblico. Esaminando i presenti, ho potuto constatare che ben pochi accompagnavano il gruppo durante l’esecuzione dei pezzi recenti, segno inequivocabile che non hanno lasciato un segno troppo profondo nel cuore degli appassionati. Dopo la breve pausa di rito e l’altrettanto canonica richiesta di ritorno in scena, il bis riserva ancora dei bei momenti. Oltre all’imprescindibile Nessun Dorma, aria della Turandot di Puccini riproposta dalla band in Warriors of the World,  viene eseguita una versione incattivita e possente di  Black Wind, Fire and Steel,  veloce, aggressiva e tiratissima. Un vero finale col botto, con De Maio che strappa le corde del basso a una a una, letteralmente,  per poi lanciarle verso i suoi ammiratori. La band si congeda con la promessa di non farci aspettare altri dieci anni prima di tornare a calcare i nostri palchi. Vista la qualità del concerto, speriamo proprio che non stiano mentendo. Lo spettacolo finisce così e il pubblico comincia a sciamare fuori, mentre gli altoparlanti riempiono la notte con le note di The Crown and the Ring. Una sola certezza: a dispetto di tutto e tutti, i Kings of Metal sono ancora tra noi!

Damiano Fiamin

Setlist:
Manowar
Gates of Valhalla
Kill With Power
Sign of the Hammer
Fighting the World
Kings of Metal
Metal Warriors
Brothers Of Metal
Call to Arms
The Gods Made Heavy Metal
Sons of Odin
Hand of Doom
King of Kings
Sting of the Bumblebee
Hail and Kill
Warriors of the World United
Thunder in the Sky
The Power

Bis:
Nessun Dorma
Black Wind, Fire and Steel

 

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