Intervista Motorhead (Lemmy Kilmister – 1983)
Intervista a Lemmy dei Motӧrhead realizzata da Beppe Riva e apparsa all’interno del numero 30 della rivista Rockerilla, anno 1983.
Il periodo è quello successivo all’uscita di Iron Fist, ultimo disco della storia del combo inglese con “Fast” Eddie Clarke alla chitarra, rimpiazzato da “Robbo” Robertson, con quest’ultimo presente allo show tenuto dalla band la notte del 17 novembre 1982 presso il mitico e compiantissimo Rolling Stone di Corso XXII Marzo, a Milano.
Buona lettura,
Steven Rich
MOTORHEAD LIVE ATTACK
Seconda calata in Italia delle Motӧrhordes, certamente non funestata dalle disfunzioni tecniche della precedente, ma neppure in condizioni ottimali, con il trio impegnato a ribadire la sua leadership sull’attuale movimento metallico, pur convalescente del trapianto recente del chitarrista “Robbo” Robertson.
Abbiamo ammirato i Motorhead comunque maestri nell’erigere lo sferragliante wall of noise che li ha imposti, campioni di breaks letali sottratti alle deflagrazioni di un campo bellico, ma anche innervositi dalla non unanime adesione del pubblico a favore del nuovo axeman, “reo” di essersi sostituito ad un personaggio (forse insospettabilmente) idolatrato dagli HM Kids della penisola, come Fast Eddie.
Brian Robertson vanta un curriculum di assoluto rispetto per l’Inghilterra, come membro dei Thin Lizzy e dei Wild Horses, ma nel nostro paese questi ultimi sono pressoché sconosciuti ed anche la band di Phil Lynott non ha mai vissuto che di (scarso) riflesso la notorietà d’Oltremanica.
I suoi detrattori locali non riconoscono in lui il selvaggio look “Hell’s Angel” che calzava magnificamente a Eddie Clarke, sostenendo che “I Motorhead erano un’entità indissolubile”, quasi fosse imputabile al binomio Lemmy-Philty la decisione di lasciare presa dall’originario chitarrista. Lemmy, l’uomo che usa il basso come l’arma primitiva dell’uomo di Neanderthal, deve aver risentito della “pressione” di questo conflitto irrisolto, e lo ha manifestato esplicitamente nel corso dello show di Milano, fraintendendo le incitazioni del pubblico (rivolte a lui, non a Eddie come ha erroneamente inteso) e zittendolo con l’autorità consentita ad una delle più rispettate figure di rocker “reale”.
Le frange intolleranti degli hardcore-metal supporters, devono imparare ad accettare un musicista indipendentemente dalla lunghezza dei capelli… “Michael Schenker non ha forse una chioma contenuta?” — si chiedeva perplesso l’affabilissimo Robbo — e prendere atto che lo stesso Fast Eddie ben sapeva, andandosene, che la vecchia line-up aveva già raggiunto un traguardo invalicabile.
Si può riconoscere a Robertson una tecnica più ortodossa del suo predecessore, come ammettevano anche gli idoli locali Vanadium (vedi il brillante assolo in “We are the Road Crew”), ed è ammissibile che la sua presenza stimoli l’overkill-trio verso orizzonti insospettabili. Non è stato forse benefico per entrambi, ad esempio, il controverso split Black Sabbath/Ozzy Osbourne? Gli spiragli melodici di un sorprendente inedito, così come un’indagine non scolastica delle radici blues e rock’n’roll, sono suscettibili di positivi effetti per il futuro dei Motorhead. Con questo, non si concluda frettolosamente che il boa constrictor dell’HM stia per allentare la sue spire, non è ancora giunto il momento di emettere sentenze inderogabili.
Nei classici, da “Iron Fist”, opener dello show, ad “Overkill”, atto finale, Robertson dimostra di aderire al Dynamite R’N’R degli ‘Head con uno stile non dissimile da quello di Eddie Clarke; se la cosa non vi alletta, se è troppo impellente la vostra necessità di nuova tortura sonora, sottoponetevi al Black Metal-Black dei Venom… Non credo, per ora, che sia possibile andare “oltre”! Occorre comunque valutare i fatti con maturità, quella stessa maturità che ci hanno accordato i Motorhead, non riservandoci un trattamento da “colonia“, foraggiabile a colpi di vecchi anthems, ma proponendoci la loro realtà attuale, un act forse frammentario per la presenza di nuovi fermenti, ma che può anche rinunciare alla apologia di “Ace of Spades” o “Bomber”, grandi assenti dello show in questione.
Beppe Riva
Rolling Stone, Milano (Foto di Marco Montani)
LEMMY, TIRANNO DELLE MOTOR-ORDE
Nel backstage del Rolling Stone i tre Motorhead ingannano in differente maniera il tempo che li separa dalla comparizione sul palco. Prescindendo dalla comune passione per atroci misture di bibite + alcolici, un Philty Taylor compostissimo si rilassa concentrandosi sulla lettura, Robbo si aggira visibilmente eccitato, accettando qualsiasi argomento di discussione (persino i gruppi etnici presenti nel Regno Unito), quasi a dimostrazione che sul piano umano i Motorhead non hanno sbagliato confermando questo scozzese. Lemmy, il personaggio-antitesi dell’eroe dall’eleganza oziosa, risponde con tranquillità professionale alle nostre domande. Ovvio che esponesse la sua versione della dipartita di Fast Eddie.
Lemmy Kilmister – Eddie ha scelto come movente del suo split l’occasione del disco con i Plasmatics, che evidentemente non condivideva, ma le vere ragioni risiedono nel logorio del nostro rapporto, io non gli andavo più a genio, come lui stesso ha poi riconosciuto.
Molto correttamente, Lemmy evita accenti polemici, ma sottintende che Eddie non tollerava più il ruolo di punto focale delle attenzioni riservato a Mr. Kilmister, ed è intuibile che l’abbandono del chitarrista sia stato accolto come un “tradimento” ingiustificato.
Lemmy – Non è possibile che Eddie abbia riscontrato motivi d’insoddisfazione dalla nostra ultima release. “Iron Fist” è stato interamente prodotto da lui, era una sua creatura. Le song erano eccellenti, Eddie vi ha suonato al meglio delle sue possibilità, e sarebbe stato arduo ottenere un “sound” migliore di quello realizzato.
Gli si può credere, perché Lemmy non è certo un musicista privo di autocritica; lo dimostra nell’excursus sulla produzione discografica dei Motorhead…
Lemmy – Il primo, “Motorhead”, è stato registrato in tre giorni alla Chiswick in modo pessimo. “Overkill” è un buon album, “Bomber” includeva ottimi brani, viziati da una mediocre produzione. Probabilmente il migliore LP è stato “Ace of Spades”, che mi ha davvero impressionato e “Don’t Sleep Till Hammersmith” non è altro che un “best of” live. “Iron Fist”, ripeto, è un album positivo.
Com’è avvenuto l’ingresso di Brian nella band?
Lemmy – E’ successo nel corso del nostro tour in USA: Eddie voleva lasciare, ed una nostra rinuncia ci sarebbe costata circa 8.000 dollari. Abbiamo suonato con Eddie mentre attendevamo che Brian ottenesse il visto d’ingresso, poiché si trovava in Canada. Ci ha raggiunti nel volgere di un paio di giorni ed ha cominciato a seguire la band.
Che accoglienza vi hanno riservato gli States?
Lemmy – Stupenda, soprattutto sulla West Coast: a L.A. l’audience era davvero straripante. Le differenze con la East Coast sono Incredibili perché si tratta realmente di due differenti “nazioni”. Per capirlo occorre sperimentarlo personalmente. Gli U.S.A. sono talmente grandi da produrre obbligatoriamente forti differenziazioni al loro Interno, che emergono sia per usi e costumi, sia livello intellettuale che culturale. Per ciò che concerne le audiences, sono influenzate nettamente dall’informazione radio-televisiva, che raggiunge ben altri standard rispetto e quelli europei. Si può dire che sono proprio le emittenti radiofoniche a DETERMINARE l’andamento del mercato programmando un certo tipo di musica ed imponendone una vera accettazione forzata. La radio è un enorme, unico canale di diffusione e vendita del R’n’R, a maggior ragione se consideriamo la sterminata estensione del territorio. Ecco perché si ricorre così massicciamente all’airplay e più generalmente alla rete delle telecomunicazioni per l’informazione di massa, negli States.
Il passato della band è ormai archiviato; come si prospetta il futuro, con l’innesto di un axeman stilisticamente dissimile da Eddie?
Lemmy – La vecchia line-up aveva ormai dato il meglio di sé stessa; ritengo possibili dei miglioramenti, con lo stile più classico di Robbo potremo occasionalmente avvicinarci al blues ed al R’n’R, comunque non si fanno piani di evoluzione nel sound di una band… deve trattarsi di un processo naturale!
A Reading hai sorpreso tutti salendo on stage con i Twisted Sister…
Lemmy – Perché non salire? I Twisted Sister sono un’eccellente band, inoltre volevo dissipare taluni equivoci sul rapporti con Eddie, che con Pete Way ha partecipato a sua volta allo show. Sapevo di essere sotto osservazione da parte della stampa musicale, e ho ritenuto opportuno “far notizia”.
È lo stesso motivo per cui hai inciso L’’EP con i Plasmatics?
Lemmy – Non c’è stata alcuna ragione al di fuori del divertimento. I Plasmatics mi piacciono musicalmente, e Richie Stotts, un peso piuma alto 1,95, è un fast guitar player dall’immagine inconfondibile. Ricordo che nell’ultimo tour in Canada, appena salito on stage, ha scatenato la curiosità e gli sguardi attoniti del pubblico. Quasi seccato, si è rivolto a me dicendomi: “Hey man, che ha tutta questa gente da guardare? Non sono un tipo qualsiasi?” E’ veramente folle!
Si dice che tu sia stato invece deluso da Wendy, che non sarebbe così “viziosa” come vuol far credere…
Lemmy – Non sono rimasto indispettito dal comportamento di Wendy; certo che ha un solo vizio… fuma molto!
E declinando l’invito a fornire maggiori particolari (un autentico gentleman!) Lemmy si appresta ai preparativi per esordire di fronte ad una platea al culmine dell’attesa. And the Heads will bang!
Beppe Riva e Stefano Colombo
Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti
Qui intervista ai Motorhead del 1981