Report: Airbourne + Guests (Dublino, 10/11/2008)

A Dublino è un lunedì sera più ventoso e freddo del solito, il cielo sereno degli ultimi giorni ha abbassato le temperature. In O’Connell Street spunta l’albero di Natale e così la camminata verso l’Ambassador, in una città relativamente calma nel tentativo di riprendersi dal weekend appena trascorso, gode delle luci cangianti dei primi addobbi natalizi.
Le porte sono già aperte e non c’è fila da fare, il locale è ancora abbastanza vuoto causa giorno lavorativo e i presenti si godono na pinta discorrendo ovviamente di musica. I più arriveranno dopo l’esibizione dei Sound & Fury. Prima band della serata e onestamente non una grande perdita per chi non è riuscito a giungere in tempo visto che il combo canadese sembra ancora indeciso tra punk e rock’n’roll, in una idea musicale vagamente sulla scia di New York Dolls e Backyard Babies. I suoni eccessivamente sgraziati e distorti finiscono con il rovinare qualsiasi tipo di presa, tra overdrive e un accavallamento sonoro che impasta tutto senza distinzione.
Molto meglio i più esperti Stone Gods, sorpresi (per stessa ammissione di frontman e mainman Richie Edwards) di quanto il pubblico di questa sera sia orientato verso il metal eppure sia pronto a sostenerli e a farsi coinvolgere nello show. Operazione non facile per i britannici, perchè un pubblico arrivato per le velocità e le trascinanti melodie degli Airbourne avrebbe potuto storcere il naso di fronte al più lento incedere dei brani di casa. Certo i The Darkness del primo disco erano altra cosa, ma Dan Hawkins e Richie Edwards stanno dimostrando di non essere stati solo i valletti di Justin Hawkins, seppur di strada in salita ancora ne devono percorrere tanta e seppur ‘Silver Spoons & Broken Bones’ sembrerebbe essere non esattamente irresistibile.
Stand Up for Rock and Roll Dublin!
Fumo da palcoscenico ed eccoli qui, attesissimi al varco per capire se quell’energia incredibile che vive tra i solchi di Runnin’ Wild (Recensione) sia solo una cometa, sia frutto di una console in studio o sia davvero la pasta di cui sono fatti questi quattro australiani. Il dubbio viene spazzato via immediatamente: questi signori fanno sul serio e tra i solchi di quel Runnin’ Wild non c’è che l’ombra di quello che gli Airbourne possono essere dal vivo. Si parte con Stand Up for Rock’n’Roll, e di lì via a tutti gli episodi del disco di debutto. Hellfire, Fat City… tutte più veloci di non pochi bpm rispetto alla versione da studio. Le uniche a essere riproposte alla stessa velocità (o quasi) sono Cheap Wine & Chepear Women e l’acclamatissima Diamond in the Rough.
L’Ambassador è pienissimo e Dublino si fa trascinare in men che non si dica scatendo una vera e propria bolgia degna dei grandi nomi. Arriva Too Much, Too Youg, Too Fast ed è una vera e propria festa, con tutti i convenuti a cantare a squarciagola i ritornelli a presa sicura dei fratelli O’Keeffe e soci. Come cigliegina sulla torta, un posto perfetto per l’occasione: un vecchio teatro di legno e pietra ormai rovinato dal tempo, con i suoi drappi rossi logori e un gioco di luci dannatamente anni ’70/’80.
È incredibile quanto Joel O’Keeffe sia, agli occhi e alle orecchie di chi conosce gli Ac/Dc, un piccolo Angus in miniatura. Risponde alle vibrazioni della sua musica con la stessa schizofrenica danza di arti, cammina all’indietro come respinto dalla carica elettrica della sua musica e si dimena posseduto dal demone del rock’n’roll. Un vero showman, che attraversa la sala per andare a suonare in piedi sul bancone del bar per poi tornare sul parco ed aprire una lattina di birra a suon di testate. Nella sua forza, nel suo incredibile carisma, sta anche il più grande difetto della band. Gli Airbourne sono Joel O’Keeffe: è lui che canta, è lui che fa gli assoli, è lui che intrattiene il pubblico parlando quel poco che basta per ricordare a tutti che stasera, se siamo tutti lì, è solo per merito del rock and roll, per la nostra devozione verso questa musica. Un piccolo proclama accolto tra i boati che guidano a un encore con Running Wild e Blackjack.
La sicurezza alza metaforicamente bandiera bianca e decide di lasciare fare. Una scelta saggia visto che di veri problemi non ce ne sono e pare che di teste calde arrivate solo per creare problemi ce ne siano solo un paio e siano già state isolate. Ci sono invece tanti tanti seguaci giunti a fare festa e divertirsi con una formazione che pochi mesi prima (se non erro giugno) era già stata a Dublino ma al Whelans, un pub noto per la musica dal vivo (dal country all’hard’n’heavy) ma pur sempre sede di spettacoli di band minori. Un salto non da poco, che la stessa band ricorda con soddisfazione dal palco “è bello essere di nuovo a Dublino, l’ultima volta eravamo in un piccolo pub chiamato Whelans, oggi abbiamo riempito l’Ambassador!”.
Gli Airbourne hanno ragione a essere orgogliosi di quello che hanno fatto e stanno facendo. Sono una band con una grinta e una carica incredibile, sanno trascinare e lo sanno fare con un sano e vecchio rock’n’roll che tanti, tantissimi aspettavano di riabbracciare. Ci sono cinquantenni della vecchia guarda, giovani curiosi e tutto quello che può stare nel mezzo. Ragazzi e ragazze, coppie e gruppi di amici, tutti uniti sotto lo stesso tetto e per la stessa causa.
Il concerto non dura molto (poco più un’oretta) e una eventuale cover degli Ac/Dc che in molti speravano chiudesse lo show non arriva; ma in quell’ora che gli Airbourne calpestano le vecchie assi dell’Ambassador l’adrenalina è davvero a mille e in molti – compreso il sottoscritto – escono sulle ali dell’entusiasmo, per aver forse trovato chi guiderà l’hard rock nudo e puro per i prossimi anni.
Alessandro ‘Zac’ Zaccarini