Recensione: 5.20

Di Matteo Bevilacqua - 28 Febbraio 2022 - 12:40
5.20
90

I Nine Skies sono una band francese che nel 2018 aveva convinto la critica con l’album di debutto Return Home, un bel lavoro, moderno e fresco che mescolava rock, metal e jazz, e celebrava le emozioni umane in un ambiente metropolitano. Con il loro secondo album Sweetheart Grips pubblicato nel 2019, il gruppo ha tentato delle vie alternative e il risultato ha colpito meno. Arrivati alla terza fatica in studio, ci propongono questo ottimo 5.20 in cui troviamo una lineup impressionante: Aliénor Favier alla voce; Eric Bouillette alla chitarra, mandolino, violino e tastiere; Alexandre Lamia alla chitarra e tastiere; Anne-Claire Rallo alle tastiere; David Darnaud alla chitarra; Achraf El Asraoui alla voce e chitarra; Bernard Hery al basso; Fabien Galia alla batteria; e Laurent Benhamou al sassofono. Gli ospiti includono nomi illustri come Steve Hackett alla chitarra, Damian Wilson alla voce, John Hackett al flauto, Cath Lubatti al violino e alla viola e Lilian Jaumotte al violoncello. Molte menti sono state impegnate nel concepire questo lavoro, e i risultati parlano chiaro. In questa terza uscita, i Nine Skies sono riusciti a catturare perfettamente l’essenza del Prog/ Art Rock degli anni ’70. Meglio ancora, hanno preso l’essenza della musica di quel tempo attribuendone una visione poetica e melodica personale.

L’opener “Colourblind” presenta subito le caratteristiche che rendono questo 5.20 un grande album fin dai primi secondi. Il ritornello conquista immediatamente e ci conduce ad una sezione strumentale caratterizzata da un ostinato di chitarra acustica che funge da base per un evocativo assolo di sassofono. Ma è con la successiva “Wilderness” che la pura bellezza ci afferra con una presa sicura. Il brano ha un grande ritornello, splendide chitarre acustiche e l’epico assolo di Steve Hackett. Non si tratta un brano rockeggiante o appariscente. La sua grandezza è conferita dalla perfetta coesistenza di sottili melodie e soluzioni armoniche efficaci, il tutto costruito su un quasi impercettibile tempo irregolare in 5.

Non mancano le tracce strumentali più brevi, come “Beauty of Decay”, una vera gemma acustica a metà strada tra gli Opeth di Still Life e Al Di Meola, mentre melodie ben costruite in un intricato pattern in  7/8 regnano sovrane in  “Golden Drops” , con il tono marcato da un’elegante chitarra acustica. “Above the Tide” parte come un brano folkloristico e colpisce nella sezione strumentale con un crescendo di archi e percussioni veramente affascinanti. A completare l’atmosfera a mano a mano più coinvolgente sono il pianoforte intrecciato con meravigliose melodie vocali. In questo brano, come per tutto il disco finora, l’elemento chiave è la sapienza con cui sono le melodie sono costruite e adattate alle forma canzone.

I nostri sferrano l’ennesimo colpo da maestro con le intricate costruzioni strumentali della successiva “Dear Mind” , brano strumentale che attraverso il suo finale cinematico e gli splendidi cambi di accordi tocca assieme a “Wilderness” le vette di godimento tra le tracce dell’album. “The Old Man in the Snow” è una canzone gentile e nostalgica. La sezione strumentale centrale è maestosa, complice lo splendido flauto di John Hackett e le percussioni acustiche. L’intensità qui raggiunta permette all’ascoltatore di vagare nello spazio – tempo indefinito riproiettandosi in un ambiente immaginario in cui John Renbourn (Pentangle) suona una jam assieme a Ian Anderson (Jethro Tull)

Il viaggio continua con le inconsuete progressioni della successiva “Godless Land”. I Nine Skies non smettono di stupire e questo brano ci porta in territori sconosciuti ma sempre con la tranquillità di chi ha i piedi saldamente a terra. “Porcelain Hill” è un trionfo. Sarà perché la voce di Damian Wilson (Headspace, Threshold) non delude mai, sarà per lo splendido intreccio di pianoforte e archi, ma è innegabile che questa traccia colpisca dritta al cuore. Damian fraseggia le melodie vocali e i testi così dannatamente bene da elevare l’ascoltatore da terra e farlo danzare con il suo tema centrale, emotivo e grandioso. Quasi come fosse un outro strumentale, proseguendo nello stesso umore ecco il minimalista “Achristas”, un pezzo di pianoforte che è al contempo potente e delicato (menzione speciale per il pianoforte che pervade in tutto il lavoro con estrema eleganza). “Smiling Stars” conclude l’album nello stesso modo in cui “Colourblind” l’aveva aperto, con un grande rock progressivo con segmenti di sassofono. Anche alcune melodie e scelte di accordi ricordano l’opener. E per questo ultimo tratto di viaggio, i nostri pare facciano di tutto per non separarsi dall’ascoltatore invogliandolo a non perdere la concentrazione. E l’esperimento riesce perfettamente.

5.20 è un album splendido e delicato, scritto con grande attenzione. Non pretende di essere eccessivamente tecnico o reboante, ma sceglie di percorrere un’atmosfera tranquilla, riservata, artistica e di classe in cui dosare e celebrare armonia e melodia in maniera impeccabile. L’aggiunta dell’eccellente assolo di Steve Hackett su “Wilderness”, con il suo stile di chitarra immediatamente riconoscibile, e la presenza di Damian Wilson su “Porcelain Hill”, sono state entrambe grandi mosse che hanno arricchito lo stile e il suono che la band voleva ottenere. I Nine Skies si stanno sviluppando e sperimentando, e penso che 5.20 sia il loro miglior lavoro ad oggi. Consigliatissimo.

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Band: Nine Skies
Genere: Progressive 
Anno: 2021
90