Recensione: 7 Days

Di Carlo Passa - 3 Febbraio 2016 - 8:00
7 Days
Band: Ivanhoe
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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58

Visions and Reality (1994) fu un debutto notevole. Dato alle stampe in piena eccitazione prog-metal post Images and Words, fu un prodotto che, pur rimanendo piuttosto di nicchia, seppe distinguersi per una personalità compositiva capace di mischiare sapientemente partiture prog con power di classe.
Ampliando il raggio di considerazione, va detto che i primi tre dischi della band tedesca (quelli con Andy Franck alla voce, per capirci) sono tutti belli e hanno resistito più che dignitosamente all’accumularsi su di essi della polvere del tempo. Un pezzo come By a Feeling (Symbols of Time, 1995) non si dimentica facilmente.
Non lo stesso si può dire per i tre successivi dischi, nei quali Mischa Mag subentrò a Franck dietro al microfono: gli anni novanta erano finiti e gli Ivanhoe parevano aver perso quel fascino un po’ underground e reazionarmente innovativo che li aveva caratterizzati nel loro periodo d’oro.
Questo 7 Days vede un nuovo avvicendarsi alla voce: Alexander Koch porta in dote un timbro più oscuro e sofferto dei suoi predecessori, riverberando una sensazione leggeremente opprimente sulle composizioni della band.
Purtroppo, 7 Days non decolla mai, finendo col riciclare se stesso nel corso delle dodici canzoni che contiene. Nonostante una scrittura generalmente di qualità, l’ascolto risulta, infatti, a tratti tedioso e il già sentito è sempre dietro l’angolo.
Rispetto alla propria tradizione, la band ha abbandonato quasi del tutto gli accenni power, per concentrarsi sulla propria natura più spiccatamente prog-metal, valorizzando in particolare i toni oscuri e i ritmi medi. A subirne le conseguenze sono le melodie, che solo raramente mostrano qualche scarto di brillantezza, facendo intravedere, piuttosto offuscato, il passato che fu.
Non mi si fraintenda. Non tutto è da scartare. L’intro strumentale Alert sembra un (buono) scarto dei primi Dream Theater e Light Up the Darkness è forte di una linea melodica decisamente piacevole e non così banale come si potrebbe pensare.
Ma sono lampi, barlumi che vivono il tempo di un pezzo, o di una sua parte. Presi uno per uno, i brani sono anche belli, con qualche punta (Innocent e The Great Admit su tutte) e poche vere delusioni (7 Days sembra non andare da nessuna parte). A mancare è la visione d’insieme, che sfoca in un indistinto complessivo privo di sostanziale personalità.
Spiace trovarsi a constatare la deriva di una band che molti di noi hanno apprezzato un ventennio fa. Ma le doti, pur ottuse dal tempo, ci sono; le capacità tecniche certo non mancano; l’ispirazione, chissà, forse tornerà. La speranza è che gli Ivanhoe abbiano presto un sussulto d’orgoglio che consenta loro di tornare a produrre dischi che onorino il nome che portano. Altrimenti è meglio tacere, dileguare in pace.

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