Recensione: A Dramatic Turn Of Events

Di Massimo Ecchili - 13 Settembre 2011 - 0:00
A Dramatic Turn Of Events
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2011
Nazione:
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55

When Dream And Day Unite, nel lontano 1989, destò parecchia curiosità e attirò le attenzioni della critica specializzata. Tre anni più tardi, Images And Words scosse il mondo musicale (quantomeno quello metal) dalle fondamenta, riscuotendo un successo più che buono, questa volta anche di pubblico; tanto che per molti fu subito amore.
Sull’onda lunga di quei primi lavori e, in parte, di quelli immediatamente successivi, nonchè su di un’attività live estenuante e di qualità, i nostri sono riusciti a crearsi un esercito di fedelissimi che hanno giurato loro amore eterno, al di là dell’effettiva qualità o meno della proposta che, da lì in poi, sarebbe arrivata.

A distanza di ventidue anni dall’esordio, arriva sugli scaffali dei negozi A Dramatic Turn Of Events, undicesimo full length in una discografia che ci ha ormai abituati a rimpinguarsi ciclicamente ogni paio d’anni. Questa volta l’attesa è stata, se possibile, ancor più trepidante, per effetto dello split con Mike Portnoy avvenuto in malo modo e che, tuttora, continua sulla strada di dichiarazioni non proprio amichevoli delle parti in causa. Naturalmente fa parte del gioco, sono situazioni che nell’ambiente si sono già verificate infinite volte, con polemiche a distanza che, in realtà, fungono più da pubblicità gratuita di quanto non dimostrino vera acredine; se così non fosse, la situazione scadrebbe nel più banale e grottesco infantilismo. Lasciando perdere le vere o presunte beghe tra musicisti (che, nel caso specifico, non sono certo dei ragazzini) c’è da registrare l’ingresso dell’ottimo Mike Mangini nel ruolo che fu di Iron Mike. A dire la verità la cosa non si nota granchè, dal momento che, nel presente lavoro, Mangini si limite praticamente ad imitare il più possibile il drumming del suo predecessore. Se la cosa gli sia stata richiesta o sia una sua scelta, questo non è dato sapere, ma difficilmente qualcuno noterà grandi differenze dopo aver ascoltato questo nuovo capitolo della saga Dream Theater.

Detto dell’avvicendamento dietro le pelli, è il momento di addentrarsi più specificatamente tra le note di A Dramatic Turn of Events. La prima cosa da sottolineare è che chi si aspettava un disco di “rottura” rimarrà sorpreso (piacevolmente o meno, a seconda dei gusti e delle aspettative): più che un momento di discontinuità, infatti, ci si trova al cospetto di una fase di passaggio che, dopo una serie di dichiarazioni da parte di Petrucci & Co. che lasciavano presagire una svolta, sa tanto di occasione mancata, poichè ripropone invariati tutti i limiti palesati dai Dream Theater nell’ultimo decennio abbondante. Volendo anche lasciar da parte l’involuzione di James LaBrie (e non si parla assolutamente di mera tecnica) o le terrificanti scelte di suoni e la masturbazione dello strumento di Jordan Rudess (e pure qui la tecnica c’entra ben poco), anche questa volta si ripropongono le carenze compositive alle quali ormai si dovrebbe essere abituati e che, invece, stupiscono ogni volta. Già, perchè è davvero difficile dare per scontate deficienze del genere riferendosi ad una band che, indubbiamente, riuscì a stupire tutti proprio per la capacità di rendere semplice il complicato. Forse il punto l’aveva centrato proprio il dimissionario batterista: la scadenza fissa uccide la creatività; o forse, invece, si è semplicemente spenta la luce che permise loro di comporre dei veri e propri capolavori.
Non che il presente lavoro tocchi gli abissi irraggiungibili di Systematic Chaos, sia chiaro, ma va registrato comunque un mezzo passo indietro rispetto al precedente Black Clouds & Silver Linings; quest’ultimo, anche se non è assolutamente trascendentale, può essere considerato a tutti gli effetti un buon disco. I Dream Theater, con questa nuova uscita, continuano nella direzione intrapresa due anni or sono, tornando come ai bei tempi ad avere un occhio di riguardo per le melodie accattivanti e tralasciando, nel contempo, gran parte di quella componente eccessivamente aggressiva che, nel loro caso, non è quasi mai stata soddisfacente; d’altro canto, tuttavia, continuano a non riuscire a dare organicità ai propri pezzi, specialmente in quelli dalla durata maggiore (ben quattro oltre i dieci minuti, nello specifico), con la sola eccezione della bellissima Breaking All Illusions. Proprio questa traccia, che arriva quasi alla fine del disco, testimonia il fatto che i cinque avrebbero ancora parecchio da dire; purtroppo ci riescono ormai sporadicamente e quasi mai per un’intera canzone.
Gli aspetti positivi ci sono, certo, e ad alcuni vanno dati il giusto risalto e l’importanza che meritano: si potrebbe, ad esempio, sottolineare la prestazione di un John Petrucci davvero rinato e nondimeno ispirato, tanto quanto non lo si sentiva da un’infinità di tempo; al pari, è difficile non apprezzare la produzione curata dallo stesso chitarrista, pulita e minuziosa nonostante non scevra di qualche difetto (il suono manca in effetti un po’ di potenza). Anche il basso di John Myung si sente più che non nel recente passato, anche se, ancora una volta, rimane troppo spesso nascosto; un peccato, tenendo conto delle enormi qualità del musicista di origini coreane.
Sull’altro piatto della bilancia, però, ci sono parecchi limiti, tra i quali una durata eccessiva (si va oltre i settantasette minuti) e l’ormai consueta difficoltà di mettere insieme canzoni che filino dall’inizio alla fine senza che, quasi inevitabilmente, qualcosa non ne rovini l’equilibrio e l’armonia. Oppure, al contrario, ci sono pezzi che sarebbero nell’insieme da censura (Build Me Up, Break Me Down e, anche se in misura minore, Outcry), ma magari in essi, qua e là, fanno capolino idee che se sviluppate in maniera differente avrebbero potuto essere vincenti.

Già l’opener On The Back Of Angels può riassumere abbastanza bene la schizofrenia dei Dream Theater post-2000 (post-1999, secondo qualcuno): l’inizio è più che interessante, per merito di un arpeggio di Petrucci decisamente riuscito; ma se già l’entrata di Rudess non è delle migliori, quella di LaBrie desta infinite perplessità; il tutto si perde ben presto nell’anonimato tipico del “senza infamia e senza lode”, nonostante un ottimo assolo di chitarra (il primo di una lunga serie) che non basta, neanche con l’aiuto della struttura mutuata da uno dei manifesti del genere (Pull Me Under), a salvare l’insieme dal grigiore. Tutto questo, però (e purtroppo), è niente se paragonato al disastro di Build Me Up, Break Me Down: misero tentativo di mettere insieme una canzone Nu Metal decente, con tanto di voce filtrata e una tastiera più fastidiosa di una zanzara affamata in un’afosa serata estiva. Giusto per renderla ancora peggiore, i nostri hanno pensato bene di infilarci un chorus ruffiano all’inverosimile: il risultato finale, nel complesso, è qualcosa che sale di diritto sul podio delle peggiori composizioni dei Dream Theater di sempre.
Anche nei pezzi più lunghi e (almeno nelle intenzioni) articolati, le cose non vanno molto meglio; a cominciare da Lost Not Forgotten, nella quale si mischiano intro di piano, un tema melodico e la ormai consueta ed esasperante autoindulgenza tecnica; e tutto questo solo nei primi due minuti e mezzo, fino all’arrivo del main riff cadenzato e insipido. Meglio soprassedere sull’inconsistenza interpretativa di LaBrie e notare come almeno Mangini inizi (era ora!) a farci sentire quache fill interessante. Da qui alla fine pochissimo altro: un ritornello incolore, la consueta sezione strumentale infinita (salvata ancora una volta dall’ottimo Petrucci) e parecchia noia. Almeno Bridges In The Sky e Outcry hanno un punto di forza nel ritornello: melodie semplici ed accattivanti che ribadiscono per l’ennesima volta, se ancora ce ne fosse bisogno, quali sono i punti di forza nel repertorio della band. Purtroppo, però, entrambe riportano a galla i problemi attuali dei cinque: parti scollegate, minuti interminabili di snervante autocompiacimento tecnico e arrangiamenti poco ragionati. In entrambe gli spunti ci sono, eccome! Ma, ancora una volta, i pezzi sembrano assemblati con idee che starebbero bene sviluppate separatamente. Nella seconda, poi, convivono suggestioni elettroniche, riff compressi e un ritornello zuccheroso, messi assieme chissà come e perchè.
E i lenti? I musicisti di Long Island questa volta sono stati magniloquenti, inserendone addirittura tre nella tracklist. A dire la verità, per This Is The Life si potrebbe parlare di semi-ballad, ma cambia poco; questa volta le cose vanno meglio dal punto di vista armonico e delle melodie, sdolcinate ma anche azzeccate. In definitiva un pezzo non trascendentale, ma che almeno si lascia ascoltare con piacere. Far From Heaven e la conclusiva Beneath The Surface, invece, sono rispettivamente una ballata per piano e voce ed una per chitarra acustica e voce; in entrambe trovano spazio delle buone orchestrazioni da parte di Rudess; in entrambe LaBrie ci ricorda di avere del sentimento; di entrambe, finito l’ascolto, non resta praticamente nulla.
Per fortuna, in mezzo a tutta questa mediocrità (o forse sarebbe meglio chiamarla “poca cura”), c’è Breaking All Illusions, che, oltre ad essere la canzone più lunga di A Dramatic Turn Of Events, è anche la migliore da tempo immemore. Qui i Dream Theater si ricordano di possedere un’anima e, finalmente, di metterla in musica. Ogni cosa ha un senso in questa traccia; ma soprattutto, ogni cosa ha un senso se rapportata alle altre. Ogni cambio di ritmo, ogni passaggio chiave, riescono a suonare coerenti e ad essere importanti nell’economia complessiva di quella che è, sotto ogni punto di vista, un’ottima canzone.

Annunciato pomposamente come “un importante punto di svolta nella carriera dei Dream Theater“, A Dramatic Turn Of Events suona molto di più come un agglomerato di compromessi: tra il glorioso passato e le indecisioni stilistiche del cosiddetto “nuovo corso”; tra l’avere un nuovo musicista tra le proprie fila e il sentirlo suonare come il predecessore; tra le melodie dalla facile presa e la componente più aggressiva, nonchè moderna, della loro musica; tra ballate delicate (quanto inconsistenti) e pezzi costruiti su riff aggressivi; tra la voglia di tornare a sonorità da tempo abbandonate (ma di recente, almeno in parte, riprese) e la strizzatina d’occhio agli appassionati dei Dream Theater-seconda era. Contrasti che stridono, soprattutto quando emergono all’interno dello stesso brano; contrapposizioni che sanno molto di costruito e molto poco di autentico.
Piacerà a molti nell’immediato, con ogni probabilità: ci sono qua e là melodie che difficilmente non faranno presa; come c’è, nelle fasi solistiche, un abbondante sfoggio di tecnica che, in ogni caso, non mancherà di impressionare. Eppure la longevità del disco è davvero bassa, tanto che si potrebbe scommettere che dello stesso, in un futuro neanche troppo lontano, resterà ben poco.
Se non altro si può gioire della rinascita di Petrucci e dell’inserimento affatto traumatico di Mangini, ricominciando a sperare, come già peraltro il penultimo lavoro faceva intendere, che i Dream Theater possano a breve ritrovare quello che da troppo tempo, ormai, hanno smarrito: l’anima. Gli indizi ci sono; sta a loro partire da qui per costruire qualcosa d’importante, senza limitarsi ad accatastare qualsiasi cosa venga loro in mente come, purtroppo, ci hanno da un decennio abituati.

Ci hanno raccontato che il problema era Mike Portnoy. È davvero così? A Dramatic Turn Of Events contiene la risposta, ed è tutt’altro che positiva.

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Tracklist:
01. On the Backs of Angels 8:46
02. Build Me Up, Break Me Down 6:59
03. Lost Not Forgotten 10:11
04. This Is the Life 6:57
05. Bridges in the Sky 11:01
06. Outcry 11:24
07. Far from Heaven 3:56
08. Breaking All Illusions 12:25
09. Beneath the Surface 5:26

Line-up:
James LaBrie: vocals
John Petrucci: guitars
Jordan Rudess: keyboards
John Myung: bass
Mike Mangini: drums

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