Recensione: Beth Out Of Hell

Di Stefano Burini - 13 Marzo 2016 - 11:39
Beth Out Of Hell
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2015
Nazione:
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60

I The Murder of My Sweet sono un quartetto svedese proveniente da Stoccolma e dedito ad un hard/AOR dai tratti prepotentemente sinfonici.

Giunta al traguardo del terzo album sulla lunga distanza, la band capitanata dal batterista e tastierista Daniel Flores e dalla prosperosa Angelica Rylin decide di approfondire ulteriormente il discorso lanciandosi nell’impresa di dar vita ad una vera e propria opera rock intitolata, con ovvi riferimenti all’immortale capolavoro targato Meat Loaf, “Beth Out Of Hell”.

Il paragone è, ovviamente, improponibile e certamente da leggersi più in chiave ironica che non come un improbabile guanto di sfida lanciato dagli scandinavi al grande cantante americano; d’altro canto la volonta di accentuare ulteriormente la componente sinfonica/orchestrale risulta evidente da parte dei The Murder Of My Sweet.

Il risultato si riflette in un album senza dubbio ambizioso ma anche parecchio difficile da digerire, al quale non mancano alcuni momenti di un certo pregio melodico (come la bella “Always The Fugitive”, “Still”, la vivace “Heaven Succumb” o “Bitter Love”, cantata in duetto) ma che in generale difetta di sintesi e di quella variatio assolutamente necessaria per tenere l’ascoltatore ben desto.

Le canzoni, prese singolarmente non sono male ma la sensazione che siano appesantite – anziché abbellite –  dai troppi orpelli pseudo sinfonici non abbandona mai l’ascoltatore durante l’intera durata dell’album; inoltre, complice il registro vocale espressivamente piuttosto monocorde della Rylin, il più delle volte finiscono per risolversi in ritornelli a dirla tutta parecchio stucchevoli. Vale la pena citare a questo proposito l’iniziale “The Awakening”, la monotona “The Humble Servant” o la semplicemente goffa “Euthanasia”, senza ombra di dubbio alcuno il punto più basso dell’intero album.

Va un po’ meglio quando gli svedesi abbandonano le sonorità più rocciose (altro fattore un po’ fuori contesto rispetto a quello che probabilmente avrebbe voluto essere il mood complessivo dell’album) e si lanciano in qualche intermezzo di matrice musical, come nel caso della già citata “Bitter Love” o di “Tide After Tide”. Tuttavia, quando ci si ritrova ad ascoltare distorsioni al limite del djent accoppiate con atmosfere dal taglio teoricamente più teatrale in un mix di rara goffaggine, l’indice di gradimento non può che crollare senza possibilità d’appello.

Il dispiego di forze è stato certamente forte ma il risultato non può dirsi soddisfacente, tali e tanti sono i difetti in rapporto ai pregi e ai pochi momenti realmente riusciti. “Beth Out Of Hell” è un disco ambizioso ma fondamentalmente piatto, sufficiente (o magari anche quacosina in più se siete dei fanatici del genere) ma onestamente non in grado di lasciare più di tanto il segno.

Stefano Burini

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