Recensione: Chemical Wedding

Di Filippo Benedetto - 18 Dicembre 2003 - 0:00
Chemical Wedding
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Anno: 1998
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85

La carriera solista di Bruce Dickinson è cominciata già nel 1990, in tempi non sospetti e senza che nulla potesse presagire ad un suo allontanamento dagli Iron Maiden. Il disco che uscì in quel periodo, “Tattoed Millionarie”, fu il prodotto di un momento particolare per il famoso singer: sia a livello artistico che come uomo. Forse Dickinson voleva tracciare un bilancio della sua attività musicale e cercare anche di ritagliarsi uno specifico spazio all’interno della band. Fu così che il disco che ne uscì era un prodotto ben più commerciale rispetto agli albums targati Maiden e al contempo un lavoro d’introspezione nell’universo musicale del famoso singer cercando di enuclearne le radici più solide (che in fondo sono ravvisabili in un rock molto influenzato dal filone anglosassone della seconda metà degli anni 70). Dopo questa prova “Bruce Bruce” fermò la sua attività da solista, per concentrarsi meglio sul nuovo disco dei Maiden finchè, dopo il Tour promozionale di “Fear of the dark” (siamo nel 1993), non prese definitivamente la decisione di lasciare la band (tra le molte polemiche che questa scelta provocò) per riprendere il discorso solista interrotta pochi anni prima. La ripresa dell’attività da parte di Dickinson coincise con l’esplodere del fenomeno del cosiddetto “grunge” (genere rock più vicino a certe sonorità punk miste ad alcune influenze di un certo rock anni 70 che non figlio dell’hard rock più puro o all’heavy metal). I dischi che nacquero in quel periodo risentirono in qualche modo di quest’influenza musicale e così nacquero dischi come “Skunkworks” e “Balls to Picasso”. Il riscontro di vendite di questi albums era quello che poteva ricevere un cantante di medio livello e con un curriculum musicale non di lunga annata. Ovviamente questo non poteva soddisfare a pieno il famoso cantante e fu così che Bruce Dickinson si mise alla ricerca degli elementi giusti che potessero rafforzare i suoi progetti solisti futuri e soprattutto che gli permettessero di ritornare a cavalcare l’onda del gran successo. Per caso ascoltò un disco di una band non molto conosciuta dai più, i Tribe of the Gypsies, rimanendone folgorato. Bruce Bruce, a questo punto, non perse tempo a contattare il leader del gruppo, Roy-Z, per proporgli di lavorare insieme. Bisogna precisare, però, una cosa fondamentale e cioè che Roy-z aveva già avuto modo di lavorare con Bruce Dickinson nell’album “Balls to Picasso” e che la collaborazione tra il famoso singer e questo talentuoso chitarrista/compositore ebbe motivo di rafforzarsi nel momento in cui Roy-z propose a Dickinson di scrivere assieme un disco di heavy metal. Fu così che nacquero due dischi fondamentali per la rinascita artistica di Bruce: “Accident of Birth” e, in seguito, “Chemical Wedding”. Questi furono due capitoli fondamentali nella discografia del famoso singer, importanti soprattutto alla luce del suo successivo ritorno negli Iron Maiden con Adrian Smith. Ma veniamo al disco qui oggetto di recensione.
Innanzitutto bisogna chiarire che “Chemical Wedding” è un concept album. Il disco s’ispira ad alcuni racconti di William Blake, quindi con vari riferimenti a temi inerenti alla magia. Innanzitutto da notare è la copertina, molto suggestiva, tratta da “The Ghost of a fleah” un libro di William Blake del 1819 a dimostrazione dell’evidente quanto fondamentale fonte d’ispirazione dell’intero album. Ma veniamo alla descrizione delle song di questo album. Disco che, è bene precisarlo subito, è il più bello prodotto da Dickinson dall’inizio della sua avventura solista.
Si parte con “King in Crimson” ed è un imprevedibile quanto potente attacco di batteria a dare inizio al pezzo. La song è potente, appunto, colpendo l’ascoltatore soprattutto per la scelta dei suoni molto secchi e allo stesso tempo “profondi”. Mai ci si sarebbe aspettati un suono così potente da un singer che, fino a pochi anni prima, aveva scritto canzoni hard rock come “Son Of a Gun” o “Tattoed Millionaire” (tratte da “Tattoed Millionaire”) o anche track struggenti come “Tears of the Dragon” (tratta da “Balls of Picasso”). Un suono quindi molto “metal”, curato e preciso in ogni suo particolare ma potente e diretto allo stesso tempo. Lo sviluppo del pezzo è trascinante e maestoso e cattura l’ascoltatore in una vera e propria spirale di emozioni sapientemente articolata dal riffing del buon duo Smith/Roy-z. Dickinson, poi, canta davvero bene e sembra di tornare indietro di parecchi anni seguendo i suoi bei vocalizzi e qua e là qualche suggestivo ghigno perfettamente innestato lungo il tappeto sonoro messo in piedi dal resto della band. Da notare il bell’assolo che eleva il grado di maestosità del brano. La seguente song è la title track, “The Chemical Wedding”, uno dei pezzi più riusciti del disco. La track ha uno svolgimento più articolato del precedente, snodandosi lungo ritmiche cadenzate ed essendo costruito su oscuri e a tratti malinconici riffs.
Con “The Tower” notiamo il chitarrista e compositore Roy-z cimentarsi in chiari e riconoscibili riferimenti al maiden style per quanto riguarda certe articolazioni del riffing e anche per com’è in generale impostato il songwriting. Insomma il lavoro qui svolto risulta un intelligente intreccio di sonorità old style con sfumature più nuove in un ricco calderone di tecnica vocale e strumentistica davvero piacevole. Il refrain, poi, aggiunge un tocco di grazia come Dickinson solo, sapientemente, sa fare riuscendo a stamparlo nitidamente nella mente. Questo disco è particolare, quindi, già all’ascolto di queste prime tre songs ma la band non finisce di stupire ancora. Infatti “Killing Floor”, quarta song del platter, irrompe aggressiva e particolarmente violenta all’orecchio dell’ascoltatore. Si tratta forse della canzone più potente ed heavy del disco, costruita com’è su di un continuo e martellante riffing che non ci si aspettava proprio, questo è il dato che più colpisce, da un chitarrista e compositore come Adrian Smith. Sì, proprio lui, l’autore di songs come “Wasted Years” e “Stranger in a strange land”, in questo brano ha fornito prova non solo di essere un validissimo chitarrista ma anche d’avere capacità e coraggio di cimentarsi in nuove sonorità e atmosfere. Un’intro costruita su un arpeggio dal triste incedere lascia irrompere poi un riff potente che costruirà la base fondamentale su cui si reggerà la seguente “Book of Thel”. Il pezzo è molto vigoroso nel riffing e la sezione ritmica ne amplifica la forza d’impatto. La potenza è il punto forte del brano, appunto, attenuata (si fa per dire!) da un refrain trascinante, melodico e comunque sempre vivace sia a livello coristico che strumentale. Una ballad, o meglio, un pezzo lento, in un disco di classic metal oramai è una consuetudine ben collaudata e Dickinson e soci, con la successiva “Gates of Urizen”, non mancano di offrircene un classico esempio. La track è molto ben curata negli arrangiamenti e da notare è l’originalità dell’esecuzione. La ritmica qui si fa più cadenzata, le chitarre si fanno quasi soffuse e ci regalano un arpeggio malinconico e a tratti cupo. Bruce sembra quasi che svolga il ruolo di “narratore fuori campo”, dimostrando una certa attitudine “teatrale” nelle vocals di questo brano. Molto evocativo il refrain che arriva dritto al cuore. L’assolo, molto ben eseguito, arricchisce ulteriormente il “pathos” complessivo della song. Con la seguente “Jerusalem” il combo si diletta a riprendere, molto fedelmente, certe sonorità celtiche molto care (evidentemente) a Dickinson e il risultato è un brano in crescendo molto suggestivo. La melodia è in primo piano in questo brano ed abile è il tentativo del duo Roy-z/Smith di non fossilizzarsi su di un solo tema musicale. Il disco, senza fatica, scorre bene e l’ottava song, “Trumphet of Jerico”, riprende in pieno sonorità e la forza d’impatto dei primi brani del disco. Il pezzo è vigoroso, sostenuto da una base ritmica vivace e in perfetta sincronia con le chitarre ritmiche. Il bello della song viene con l’irrompere del refrain che, seguendo una vera e propria cavalcata di riffs, ricorda certi felici episodi di della discografia maideniana della seconda metà degli anni 80. Finiscono di tuonare le “Trombe di Jerico” che irrompe in tutta la sua potenza la nona “Machine Men”. Il brano riprende sonorità aggressive e la compattezza del riffing risulta convincente.Anche questo pezzo porta la firma di Adrian Smith che anche in questa song dimostra notevole abilità nel comporre brani molto heavy. Il refrain forse poteva essere meno scontato, ma comunque è ben eseguito e non sfigura con la forza complessiva del pezzo. L’Ultima track del disco, “The Alchemist”, si distingue per le ritmiche cadenzate e cupe allo stesso tempo. L’atmosfera di dramma che pervade la song è catturata dal refrain che a livello di vocals mostra ancora una volta le doti “teatrali” di Dickinson. In più il brano si avvale di un assolo che richiama vagamente certe sonorità orientaleggianti, arricchendo notevolmente il pezzo.
In sostanza questo può essere considerato il migliore della discografia del famoso singer. Il consiglio è di averlo nella propria collezione, a prescindere se si sia o no fan degli Iron Maiden.

Tracklist:

1 King in Crimson
2 Chemical Wedding
3 The Tower
4 Killing Floor
5 Book of Thel
6 Gates of Urizen
7 Jerusalem
8 Trumphet of Jerico
9 Machine Men
10 The Alchemist

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