Recensione: Chronicles Of The Immortals: Netherworld (Path 1)

Di Roberto Gelmi - 2 Marzo 2014 - 14:52
Chronicles Of The Immortals: Netherworld (Path 1)
Band: Vanden Plas
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
82

What is immortality? It is a condition of eternal bliss
Is it the redemption from all evil, the return to Paradise,
Or is it in fact somethnig very, very different?

 

Sono poche le band a tutt’oggi, i cui full-length si acquistano a scatola chiusa. Nel ristretto novero di tali gruppi, in ambito (progressive) metal, insieme a Shadow Gallery, Threshold e Ayreon, figurano i Vanden Plas. Carriera più che ventennale, una line-up compatta come non mai e una naturale attitudine all’intrattenimento raffinato.
Dopo due concept album che farebbero invidia a molti (“Christ 0”, sulla vicenda del conte di Montecristo, e quello biblico-ucronico di “The Seraphic Clockwork”), i tedeschi propongono, a quattro anni di distanza dall’ultimo disco in studio, un altro ambizioso full-length concettuale, incentrato, questa volta, sul tema dell’immortalità.

Musica e testi sono ispirati a “Die Chronik der Unsterblichen – Am Abgrund” (Le cronache degli immortali – Nell’abisso), primo tomo, edito nel 1999, della saga fantasy (e in parte horror), a opera del turingiano Wolfgang Hohlbein, scrittore di culto in Germania, quanto poco noto in Italia. La vicenda, ambientata nel Quattrocento, parla di un guerriero dotato di poteri soprannaturali, Andrej Delãny, che dovrà affrontate un periglioso viaggio di vendetta, dopo che il suo villaggio natio è stato selvaggiamente distrutto. Il protagonista gode, altresì, di una sospetta longevità, che gli impedisce d’integrarsi nella comunità umana: dovrà scegliere tra immortalità e umanità, in un terribile aut aut, affidandosi al proprio discernimento interiore.

L’idea di trasporre la vicenda in chiave metal non nasce dai Vanden Plas: a farsi avanti è lo stesso Hohlbein, fan del combo teutonico, che propone a Kuntz un adattamento teatrale dei suoi romanzi gotici. Questo sodalizio trova una concretizzazione in una prima, tenutasi nel 2012 a Kaiserslautern (luogo d’origine della band), cui hanno partecipato Kuntz (anche in veste di attore principale) e Stephan Lill, insieme a Günter Werno, come parte integrante dell’orchestra in sala. Considerato il successo riscosso nel relativo tour in Germania, il gruppo ha continuato la collaborazione con Hohlbein e ha deciso di riproporre il musical in chiave “pesante”. Nasce così l’ultimo platter targato Vanden Plas, il settimo in carriera, per la gioia di tutti i fan di nuova e vecchia data.
Se gli elogi si sprecano per un gruppo così poco blasonato ma fedele a se stesso nel corso dei decenni, va detto che il precedente “The Seraphic Clockwork” non è esente da qualche pecca e lascia trasparire un po’ di stanchezza compositiva. Con “Chronicle Of The Immortals” i tedeschi si ripropongono, invece, quasi sui livelli di grazia di “Christ 0”. Più ispirazione, arrangiamenti mai trascurabili (con una special guest femminile e coro di voci bianche), alcuni momenti trascinanti, altri davvero metal, e non poche parentesi intimiste e toccanti. Non c’è innovazione, ma la classe di musicisti navigati e un disco che è ben bilanciato e si lascia ascoltare e riascoltare.
Immergiamoci, dunque, nell’ascolto e lasciamo che la musica ci traghetti all’interno del mondo oscuro tratteggiato da Hohlbein e messo in parole da Andy Kuntz.
L’intro presenta una calda voce narrante (che non ritroveremo nel resto del platter), non troppo dissimile da quella di Mike Terrana in “Tales of Ithiria” degli Haggard. L’eroe è giunto in Transilvania, a Bor?a, sua città natia, dove seppellì il suo unico figlio e non può fare a meno di rivivere il dolore lancinante di tale perdita. Misteriosamente dalle porte dell’Inferno prendono forma fantasmi del passato e si materializza una bizzarra danza macabra («a bizarre dance of the Dead»). Due sentieri si profilano di fronte ai suoi occhi: di qui l’artwork di Stanis W. Decker, che gioca con la coppia oppositiva sole-luna, sullo sfondo di un nuovo albero della conoscenza del bene e del male, che affonda le sue radici in un cupo mondo ctonio. Da un lato, un oscuro mutaforma («a dark shape-shifter») prende la parola e propone ad Andrej l’immortalità, attraverso la via di un glorioso deicidio, ma a costo del suo ultimo residuo di umanità. Dall’altra, si schiude la possibilità di rivedere il figlio Marius e l’amata moglie Maria, la via degli affetti umani, che preclude, però, la vita eterna. Il protagonista si ritrova sul confine di due mondi, nel mezzo dell’eterna guerra tra paradiso e dannazione eterna («between the fronts of two worlds / in the middle of the eternal raging war between Heaven and unending Darkness»). 

L’album è all’insegna di questa demoniaca nékyia (evocazione di defunti), suddivisa in dieci visioni (se s’include la prima come prologo necessario), con schiere di spiriti infernali che tentano Andrej, figura tutt’altro che indivisa: in “Vision 1ne” afferma, infatti, (è Kuntz, ora, a cantare) come ci sia una macchia nella sua anima («a fleck in my soul»), che lo rende insicuro sulla decisione da prendere. Eroe tormentato, dunque, non lontano dall’atipico prete ramingo e assetato di sangue dei Dream Theater di “In the Presence of Enemies”, se mi si concede il paragone.
Dopo la breve parentesi introduttiva, il metal prende corpo nella lunga “Vision 2wo – The Black Knight”. Il brano, in realtà, si presenta come una sorta di finale anticipato nel mesto refrain («I’ll see you in heaven / I’ll see you in hell / If this is the end before it begins»). Sonorità vellutate cullano l’ascoltatore, poi subentra un incedere marziale. Risultano indovinate le voci secondarie nel ritornello, così il break fatato al min. 4:26. Il cavaliere nero che si para di fronte ad Andrej narra delle sue efferatezze nel corso dei secoli e sfoggia una spada forgiata dagli dei («a sword forged by the gods»): un rimando alla wagneriana “Notung, Neidliches Schwert”? Sul finale di canzone, anime di bambini defunti danzano sulle proprie tombe, cantando la bellezza della morte («singing death is so beautiful»): la presenza del coro rende quasi palpabile l’aura metafisica della visione. Andrej è combattuto e pensa, in un sofferto soliloquio, «I’m a monster – I’am a saint / I’m a monster – I’m a vampyre». Cosa ci può essere di più visceralmente teutonico, non sapremmo proprio dirlo!

Uno dei momenti migliori dell’album è la successiva “Vision 3hree – Godmaker” (sul cui raccapricciante videoclip non perdo tempo), brano accostabile per pomposa cattiveria all’opener theateriana “A nightmare to remember”. Una doppia cassa cronometrica detta i tempi di un brano memorabile, che si conclude con un acuto di Kuntz d’applausi. I testi sono apocalittici: il diabolico interlocutore invita Andrej a seguirlo, vuole renderlo un dio e mostrargli la terra promessa («I came to make you a god today / Soon you will see promised land»). Il Dio uno e trino deve cadere (sempiternal / and weak triune gods they must fall); Andrej deve raggiungere Asgard per divenire ciò che è destinato a essere. L’assolo di chitarra rende mimeticamente la possibilità dell’ascesa dell’eroe sospinto da un coro fintamente angelico. Il perfido demiurgo lo incalza: «Follow me or stay here and die with her!» Divenire un dio, senza amore, può essere questa la scelta più saggia?

Notevole il cambio di dinamiche tra la coda di “Godmaker” e l’inizio di “Vision 4our – Misery Affection Prelude”, toccante e breve duetto tra Andrej e Maria (Julia Steingass), la moglie irraggiungibile dell’eroe. Altri minuti magici del platter.
“Vision 5ive – A Ghosts Requiem” ha uno svolgimento funereo, fiati onirici (campionati) e una parte in latino, cantata dal coro, che unisce versi del “Requiem” a quelli del “Kyrie” (già colonna portante dell’ultima traccia di “The Seraphic Clockwork”). In un crescendo appagante, gli spiriti invocano la pace per Andrej «ante diem rationis» (prima del giorno del giudizio), rivolgendosi a una figura divina benefica («gentle-lord»).

“Vision 6ix – New Vampyre” presenta inserti di musica elettronica e ancora il tema dell’inizio della fine come in “Vision 2wo”. Viene descritto un vampiro («I’am alien god / just fallen from grace»), che vola libero nella notte («see me running, see me flying»), alla ricerca delle anime perdute («searching the souls god cannot save»), con un sottofondo di basso pulsante e chitarre dilatate.
“Vision 7ven – The King and the Children of Lost World”, propone ancora echi marziali, qualche bending prepotente di chitarra e un incedere epico. Il refrain melodico si lascia riascoltare: «We are the children of lost world / awaiting our savior’s arrival tonight». I testi parlano dell’avvento imminente di un misterioso salvatore che andrà a rompere, con fiamme purificatrici («healing flames»), l’anatema che grava sulle anime dei figli dell’abisso. Poco felice la scelta di filtrare la voce di Kuntz, prima dell’ottimo stacco pianoforte, al min. 4:05, e delle eteree voci bianche che recitano: «Our mothers our fathers / they came to dance away our fears». Werno regala una coda sui tasti d’avorio intrisa si pathos e subito prende avvio, senza soluzione di continuità, “Vision 8ight – Misery Affection”, con un synth di violoncello. Come apprendiamo in un romantico duetto tra Andrej e Maria, sono trascorsi alcuni secoli («Another few hundred years went by»), ma sempre dolce risuona la rassicurazione della moglie («I’ve been waiting for so long / I will the sweetiest dex / I’m beside you»). Il brano termina in uno stato di sospensione estatica, dove le parole sono tutto: «Stay for a day for a while for a minute / by my side for a second in my life».

“Vision 9ine – Soul Alliance” ha un incipit di tastiera tirato, al limite dell’irritante, poi doppiato da un bel riff heavy. Si descrive un viaggio per mare, in termini quasi à la Rhapsody («in a city of death I see souls passing by / I’m living my life here on the border / […] over mysterious waters to the delta of fears / from the valley of doom to the old lost world’s bay»). Ancora un break etereo (min. 4:36) e il finale è un mero sfogo liberatorio («how will it end when gods play at vanity dice / and they’re playing games at the cost of an innocent child / I’m leaving with the wind / a freedom warrior»).

“Vision 10n – Inside” è l’epilogo di questo primo capitolo della saga e lascia la vicenda irrisolta («I can’t live – I can’t die / I am dead – but alive»). Andrej si rivolge al proprio cuore («inside there’s a reason»), ma sente di non poter trovare certezze («I’m alone […] / grace is calling my name / but still calling me in vain») di fronte all’insensatezza della vita («tell me the sense of a life where we always return?») Toccanti voci bianche accompagnano le parole dell’eroe: «Sometimes in life I’ve seen the end of the rainbow / but caught in the dark side of life, never finding my way». Il ritornello non è dei più riusciti dell’album, vanno meglio i delay di chitarra che “riempiono” il sound già corposo della band. Dopo gli ultimi minuti trascinanti (vicini al pathos dei Threshold) il finale non è pirotecnico: una cadenza discreta lascia Andrej solo nella sua irresolutezza.

Questo il concept a grandi linee. Tornando a un giudizio complessivo del gruppo tedesco, si può dire che i Vanden Plas si riconfermano esecutori senza sbavature e attenti a non tralasciare la giusta dose di sentimento, anche grazie a un sapiente eclettismo che punta su cambi di atmosfera repentini. I virtuosismi (penso agli unisoni chitarra-tastiera) non sono mai fini a se stessi e il vero valore aggiunto del full-length è un concept che cavalca il revival della buona letteratura gotica dell’ultima decade, specchio di una società dove il ritorno del superato (freudiano) è sempre dietro l’angolo. La prova di Günter Werno (attivo anche con i Place Vendome), in particolare, merita un elogio speciale: il tastierista intesse armonie e propone assoli mai banali, che rendono unico la proposta musicale del gruppo teutonico (oltre, in questo caso, a dirigere il coro presente sull’album).
Ottima anche la produzione, a cura degli stessi Vanden Plas, cosa chiedere, dunque, di meglio? Forse si poteva puntare ancora più in alto pensando al coinvolgimento di un’orchestra ridotta, ma non stiamo certo parlando dei Therion.

In definitiva, un platter d’avere nel modo più assoluto e d’affiancare ai precedenti due studio-album a formare un trittico di dischi concettuali, da riascoltare con testi alla mano e tramandare ai posteri.

Discutine sul forum nel topic dedicato ai Vanden Plas!

Ultimi album di Vanden Plas