Recensione: Crypts of Eternity
Una cafonissima copertina dai toni caldi introduce “Crypts of Eternity”, secondo lavoro per i francesi Fäust, nome abusatissimo dietro cui stavolta si cela il polistrumentista Michaël Hellström. Costui diffonde, dalla città che diede i natali ad André the Giant, un black metal melodico non proprio ortodosso ma che, forse proprio per questo, offre diversi spunti interessanti. La ricetta dei Fäust, infatti, benché basata su un black metal piuttosto bellicoso, deve fare i conti con un approccio fortemente imbastardito, sia nei toni che nelle strutture, e una ricerca di melodie e assoli che guarda insistentemente alla scena svedese, soprattutto di death melodico. Alle classiche sferzate gelide e sghembe tipiche del black si affianca, in “Crypts of Eternity”, un uso di chitarre più concentrato, rigoroso, che ne stempera la furia cacofonica senza intaccarne la carica intimidatoria. Questa alternanza rende la proposta di Hellström sia accessibile che minacciosa, permeata da un’aura cupa e sinistra ma anche da una ricerca di melodie impattanti ed enfatiche, a volte addirittura sognanti, tanto da scivolare più volte fuori dai confini del black propriamente detto e strizzare l’occhio a generi più addomesticati. Oltre alle sporadiche incursioni nei territori del già citato death melodico, infatti, si percepiscono di tanto in tanto tentacoli dal retrogusto viking ed heavy classico avvolgersi tra le spire sonore dei Fäust, donando al tutto un tiro accattivante e cafone che mi è piaciuto molto. Anche la durata complessiva, trentasette minuti e spicci, permette ai Fäust di dire ciò che devono senza girarci troppo intorno con inutili lungaggini.
Le chitarre sono il cuore di “Crypts of Eternity”, le vere padrone della scena, e si prendono le luci della ribalta grazie a riff vorticosi ed ottimi intrecci armonici, che ingentiliscono la materia musicale quanto basta da sciogliere un po’ del gelo normalmente previsto dal genere senza, per questo, intaccarne l’atmosfera minacciosa. Stessa cosa dicasi per gli assoli, molto azzeccati e capaci di fondersi molto bene al tono delle canzoni senza risultare forzati. La sezione ritmica è quella che patisce di più questa scelta, relegata spesso in secondo piano per fungere da semplice sostegno al lavoro di chitarre, e pur tenendo alto il tasso adrenalinico del lavoro non lascia mai veramente il segno, mentre la voce di Michaël trasmette rabbia più che malvagità ma non stona nell’amalgama sonoro così ottenuto.
Dopo l’intro atmosferica “In Tenebris” si parte determinati con “To the Fire, To the Death”, in cui già si mescolano le carte alternando veloci raffiche chitarristiche a rallentamenti solenni. Il gelo del black viene stemperato dagli squarci trionfali che si innestano nel tessuto sonoro, a loro volta drappeggiati dalle schegge malevole che spuntano di tanto in tanto. “Night Terror” gioca con toni ed atmosfere più feroci, recuperando un’attitudine orrifica e violenta che si sviluppa attraverso un impatto sonoro più oscuro, malvagio, a cui fanno da contrappunto brevi rallentamenti carichi di groove in cui si inseriscono melodie dinamiche e ben bilanciate. La title track, introdotta da una melodia sinistra ma al tempo stesso marziale, si distende sui tempi relativamente scanditi della marcia minacciosa che si ammanta di un’enfasi inquieta durante il ritornello. Lo scarto di tono che apre la seconda metà del pezzo ospita il rallentamento più classicamente heavy in cui si innesta l’assolo, ma il ritorno in scena delle melodie cupe sentite in apertura rimette tutti in riga in vista di un ritorno dell’enfasi poco prima del finale. “In a Ghastly Silence” parte a spron battuto, recuperando fiato di tanto in tanto per ributtarsi nella mischia con rinnovato vigore. La componente black viene un po’ accantonata, tornando a farsi viva nella vorticosa parte centrale coronata da un bell’intreccio di chitarre. Il pezzo prosegue così, alternando raffiche tempestose e rapidi squarci dal persistente profumo di death melodico fino a cedere il passo all’arpeggio che apre “Sorcery”. Qui le atmosfere tornano a farsi sinistre, maligne, senza disdegnare una certa romantica disperazione garantita dalle armonie delle chitarre. Dopo la breve invocazione stregata che occupa la pausa centrale il pezzo si carica di nuova forza, mettendo da parte le note più sinistre per concedere spazio, nel finale, agli intrecci melodici. Il compito di chiudere il sipario su “Crypts of Eternity” spetta a “And Then Blows the Funeral Winds”, introdotta da una melodia imponente che, di colpo, si lancia all’assalto sfruttando la carica propulsiva del death e la malignità del black. I ritmi si mantengono alti, voraci e rombanti, per poi rallentare di colpo in un arpeggio malinconico e sognante: giusto il tempo di tirare il fiato che si riparte alla carica, mescolando ancora una volta generi diversi per un finale carico di pathos.
“Crypts of Eternity” mi è piaciuto: non è un album che riscriverà le leggi del black metal melodico, né il genere di lavoro che consiglierei ad un oltranzista del black duro e puro, ma proprio per la sua natura inclusiva, cafona e strafottente riesce a toccare le corde giuste, riempiendo la pancia nonostante la breve durata ed invogliando ogni volta a nuovi ascolti.
