Recensione: Curse of the Forlorn

Di Daniele D'Adamo - 4 Novembre 2022 - 0:00

Da sempre, quando c’è da produrre musica seria, professionale e di alto livello tecnico/artistico, gli inglesi affermano con convinzione: «presente»!

E questo in molti ambiti musicali fra i quali non poteva non essere presente il metal, come insegna la Storia della NWOBHM. In questo caso specifico, death metal.

Entrando nel merito, “Curse of the Forlorn” è il terzo full-length dei Live Burial, formazione di stanza a Newcastle. Sarà per l’aria che si respira da quelle parti (Venom docet), lo stile dei nostri esula parecchio dal concetto enciclopedico del genere di cui trattasi. Certo, il focus è il metallo della morte ma inteso come forma complessa e tenebrosa, la cui matrice ingloba parecchia oscurità. L’impatto dei brani del disco è tremendo, la cui forza è concepibile come le spire di un boa. Implacabili nel soffocare la preda.

Tornando al primo capoverso, l’impressione istintiva che si ha quando l’opener-track ‘Despair of the Lost Self’ scatena la sua cavalleria, è contraria a quanto affermato. Sembrerebbe regnare, cioè, una buona dose di caos scaricata a terra da una produzione sporca, a tratti addirittura confusa. Difficile da delineare mentalmente nei suoi tratti distintivi. Tale effetto rozzo, invece, è proprio ciò che i Live Burial intendono fissare come mood della loro espressione musicale. Tutto voluto, insomma. Circostanza che emerge dopo un po’ di ascolti, quando si prende confidenza con il sound monumentale dell’LP.

Un sound che ha come caratteristica principale l’urlo delle chitarre, specificamente quando affrontano la fase ritmica. La distorsione è totale, apposta per creare l’idea di un mare di fango, pieno di cadaveri in decomposizione, in tempesta all’interno di gigantesche caverne, tanto buie quanto senza fine. Laceranti assoli squarciano la plumbea atmosfera sì riprodotta, addensando calore per dare l’idea di una colata di mota compatta in rapido movimento. Pilotata, si fa per dire, dall’ugola marcia e purulenta di Jamie Brown, cantante in grado di esprimere un growling semplicemente bestiale, aggressivo come pochi; purtuttavia concepito per evitare di essere monocorde per dare alle linee vocali il necessario dinamismo per non incappare nella noia.

Molto potente, anche, l’effetto delle campionature e delle cupe orchestrazion (‘Exhumation and Execution’) che si adagiano sulle canzoni per aumentarne, quanto più possibile, l’effetto lisergico. Per quello che, da più parti, è definito come atmospheric death metal. Una delle tante derivazioni dall’idea cardine del death che, però, almeno, servono per avere un’idea delle peculiarità insite in un CD definito in tale modo.

Da menzionare anche il drumming di Matthew Henderson. Complicato, convulso, ricco di cambi di tempo ma soprattutto assai efficace quando si addentra negli infuocati territori dei blast-beats. Aiutando il resto del gruppo a generare l’effetto maremoto di cui si è più su scritto.

Le tracce, piuttosto lunghe, scavano a fondo nel terreno grazie al loro minutaggio, indispensabile per toccare tutti i più reconditi anfratti dell’animo umano. Esse sono sufficientemente differenziate per coinvolgere totalmente l’ascoltatore all’interno del platter, attirato dalla curiosità di scoprire cosa celi ciascun episodio. Compresa, naturalmente, la closing-track ‘This Prison I Call Flesh’, articolata suite nella quale i Nostri danno il meglio di sé, anche come sopraffini e preparati esecutori.

“Curse of the Forlorn” non è un’opera per tutti. La sua intrinseca poliedricità potrebbe disorientare qualche appassionato, non ancora dotato della necessaria esperienza per digerire un lavoro che si mostra ostico, tortuoso e composito al primo ascolto.

Daniele “dani66” D’Adamo

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