Recensione: Dark Signs

La storia dell’Acciaio italiano è stata scritta dalle grandi band del passato, solo per citarne cinque: Death SS, Vanadium, Strana Officina, Skanners, Bulldozer. Ma è altrettanto vero e sacrosanto che molteplici capitoli della narrazione sopraccitata sono stati ad appannaggio di gruppi dall’eco mediatico inferiore ma altrettanto fondamentali per consolidare l’intero movimento anche a livello geografico.
Fra questi ricadono anche i napoletani Entropy, compagine attiva sin dal 1990 che nel proprio carniere può vantare due album e un EP: Wrong Days del 1996, What’s New from Mars (2009) e il novissimo Dark Signs, oggetto della recensione, pubblicato dalla Metal Zone Italia e che nella sua versione in Cd digipak si accompagna a un libretto di sedici pagine con tutti i testi, una foto della band nelle due centrali e le note tecniche di rito.
Fa particolarmente piacere ritrovare, nella formazione attuale, ben tre quarti della line-up originale, ossia: Michele Antonio Coppola (batteria), Arnaldo “Al” Laghi (voce) e Marco Campassi (basso). I ranghi si compattano poi con Biagio Valenti alla chitarra, già nei Larsen.
Nella realtà la carriera degli Entropy non fu del tutto continuativa: alcuni cambi di musicisti portarono il gruppo a uno stop forzato intorno al 2001, per poi riprendere con rinnovato vigore a partire dalla realizzazione dell’Ep What’s New from Mars.
Tornando alla stretta attualità. Dark Signs si compone di undici brani, per cinquantaquattro minuti di durata. La proposta dei campani si dimena fra pulsioni heavy, preponderanti sul resto e tracimazioni in ambito thrash, prevalentemente. L’ugola di Laghi spazia dall’acidità di prammatica a momenti decisamente più dolci, conferendo particolare colore al tutto. Da buone, vecchie triglie del Metallo tricolore, gli Entropy confezionano un prodotto di livello, senza particolari cali di tensione che va preso in blocco. Da segnalare l’ariosa e spagnoleggiante “End of Time”, la straclassica “Time of the Peril”, la violenza espressa da “Black Metal”, cover dei Venom, l’ottima melodia incarnata dentro le note di “Lovemeless”, il palese tributo al British Steel tratteggiato su “Hellcop” e, per finire, i dieci minuti ricompresi dentro “The Four Tempters”, il pezzo maggiormente variegato del lotto, a disegnare il manifesto musicale dei napoletani, suddiviso in quattro parti.
Stefano “Steven Rich” Ricetti