Recensione: Deep Water

I Cosmic Cathedral sono una band che unisce energia, esperienza e sperimentazione in un’unica esperienza musicale, creando un viaggio che porta verso i confini tradizionali della musica, un po’ come è da tradizione, nelle terre del progressive rock. Il loro stile si nutre di influenze psichedeliche, ambientali e, appunto, progressive rock, costruendo paesaggi sonori che sono tanto vasti, delicati e armoniosi quanto intricati. L’album si inserisce in un continuum di esplorazione musicale che spinge oltre le aspettative, sia dal punto di vista ritmico che compositivo. Con “Deep Water”, Neal Morse (Flying Colors, The Neal Morse Band, Transatlantic, Spock’s Beard), mentre primaria del progetto, guida un quartetto di altissimo livello in un’opera che esplora le coordinate più classiche del progressive rock, arricchendole con elementi fusion ben integrati nella scrittura. Il risultato è un album ampio, articolato, formalmente impeccabile che mette in evidenza tanto la perizia tecnica quanto la coesione tra i musicisti coinvolti, soprattutto sulle intese legate alle singole abilità, di altissimo livello.
Lo stile si muove con disinvoltura tra passaggi sinfonici, fughe strumentali e aperture melodiche, costruendo un suono che richiama apertamente alcune esperienze fondamentali del prog rock contemporaneo. Oltre ai già evidenti rimandi ai Kaipa, soprattutto per quanto riguarda la fusione fluida tra strutture complesse e armonie ricercate, emergono parallelismi con i The Flower Kings ‘più architettonici’, così come con gli stessi Spock’s Beard di Morse nei loro momenti più stratificati e teatrali.
La cifra spirituale, sempre presente nelle opere di Morse, attraversa anche questo disco, donandogli una luce serena e contemplativa, spesso espressa attraverso un linguaggio musicale raffinato e positivo che mira più alla costruzione intellettuale che allo slancio emotivo.
L’album si divide in due sezioni principali: una prima parte composta da episodi ‘autonomi’ (spettacolari “The Heart of Life” e “Time To Fly“) e una seconda occupata dall’omonima ampia suite, suddivisa in nove movimenti, intro compresa. Nonostante la qualità indiscussa degli arrangiamenti e delle performance, il lavoro, soprattutto relativamente alla suite, risulta in alcuni momenti eccessivamente ridondante, come se la ricerca formale prendesse il sopravvento sulla spontaneità espressiva. L’album finisce un po’ per arenarsi se l’obiettivo è quello di ‘viverlo’. Costituisce una colonna sonora di grande rilevanza, se ponete l’attenzione altrove.
In definitiva, “Deep Water” non mi ha preso particolarmente. È godibile da ascoltare in sottofondo, ma non cattura il magnetismo legato al potenziale che tutti noi abbiamo di sognare e di emozionarci allo stesso tempo; a mio parere, si presenta come un riuscito esercizio di stile, solido e coerente, capace di appagare l’ascoltatore più attento alle sfumature compositive e alle strutture complesse. Tuttavia, chi cerca una narrazione musicale più viscerale o un impatto emotivo diretto potrebbe trovarlo, in parte, distante. È un disco pensato, scolpito, lucidato fino all’ultimo dettaglio, più mente che cuore, ma con un’innegabile eleganza e stile.