Recensione: Divina Commedia: Paradiso
Un’angelica Beatrice campeggia sulla copertina (forse un attimino troppo in odor di Stratovarius) del nuovo album degli Starbynary, “Divina Commedia: Paradiso”, che conclude la trilogia dedicata alla Comedìa dantesca. L’album, in uscita domani, arriva a un solo anno dal suo immediato (e ottimo) predecessore e a tre dal primo capitolo dell’ambizioso progetto con cui l’italica compagine tributa i giusti onori all’opera di Dante Alighieri. Andando a rovistare nella mia memoria scolastica, ricordo che la terza cantica del Sommo è sempre stata quella più ostica per me, vuoi per un materiale di partenza decisamente più complesso ed articolato (sia per forma che per contenuti), vuoi per un mio snobismo di fondo – perché dai, si sa: con l’Inferno ci si diverte sempre di più! – fatto sta che attendevo questo capitolo della discografia degli Starbynary con una certa apprensione. Ebbene, a riprova del fatto che i nostri hanno sempre cercato di tenersi quanto più vicini agli scritti danteschi, le stesse difficoltà che mi frustrarono nello studio della cantica celeste mi hanno accompagnato anche durante l’ascolto di “Divina Commedia: Paradiso”. Come per il materiale originale, infatti, anche quest’album denota una certa complessità strutturale: gli Starbynary alzano l’asticella ancora una volta, e il loro metal a metà tra power e progressive rielabora davvero, in chiave musicale, le caratteristiche intrinseche dell’opera dell’Alighieri.
Chi, però, si aspetta un metallo celestiale, arioso e impalpabile, si dovrà ricredere: la proposta degli italiani mantiene una solida croccantezza, sviluppandosi su ritmi frastagliati e lasciando libere chitarre e tastiere di fare il bello e il cattivo tempo, screziando le varie tracce con profumi e sapori cangianti per donare ad ogni cielo un respiro notevole. Ecco quindi che cavalcate imponenti, fraseggi dal retrogusto sacrale, passaggi intimisti, progressioni e fughe si mescolano organicamente in un vortice sonoro tutt’altro che caotico. Il risultato è uno sfarzoso mix di dramma, estasi, quiete, fomento e trionfo, senza dimenticare un po’ di sano sense of wonder (ricordiamoci che, stringi stringi, la storia della Comedìa parla di un viaggio nel mondo dei morti tra demoni, torture, fiamme e punizioni, e si conclude con l’autore che, in un trionfo di effetti speciali e in mezzo a creature ultraterrene sempre più potenti, si ritrova al cospetto del gran capo). Non mancano, ovviamente, le citazioni dirette al testo dantesco: qui, oltre alle classiche citazioni parlate che abbiamo già incontrato nei due capitoli precedenti, non è raro incontrarne altre fuse al tessuto della canzone, che superano abbastanza brillantemente l’impasse che avevo riscontrato nel Purgatorio. Torna anche Lisy Stefanoni (Evenoire, Shadygrove) nel ruolo di Beatrice, divenuta nel finale della cantica precedente la guida ufficiale di Dante in sostituzione al pagano Virgilio.
Dato che stavolta le cose da dire sarebbero davvero troppe, onde evitare di dilungarmi troppo abbandonerò il consueto track by track per una visione più generale del lavoro che, come scrivevo poco fa, si sviluppa su una base quadrata e solida per poi ricamarvi sopra quando serve. Si prenda ad esempio l’opener “The Moon”: un piano delicato apre le danze, sostituito in poco meno di un minuto da tastiere propositive e chitarre agili. Dopo questa partenza agguerrita il pezzo si adagia su ritmi medi, per meglio descrivere l’incostanza che viene trattata nel cielo della Luna. La canzone prende corpo, fino a lanciarsi alla carica durante il doppio assolo molto neoclassico, salvo interrompersi di colpo per concedere al piano di sorreggere la mezza citazione del canto IV, lasciata aleggiare in chiusura. Questa sorta di struttura multiforme costituisce il vero punto di forza di “Divina Commedia: Paradiso”, in cui ogni cielo possiede la propria personalità, tratteggiata però attraverso rapide pennellate senza creare fratture nella struttura complessiva dell’album, che si mantiene così omogeneo ma tutt’altro che monotono. Ecco allora che nel cielo di Mercurio, in cui Dante incontra le anime fiammanti che si attivarono per l’amore della gloria e della fama, la musica si fa stentorea ma nervosa al tempo stesso, mentre nel cielo di Venere, dove molti si aspetterebbero una ballad, i nostri procedono con piglio determinato, sfruttando stacchi ritmici che donano alla canzone un umore arcigno, spazzato via dall’ingresso di Beatrice, che nel suo botta e risposta con Joe si appropria del finale con una nuova nota trionfale.
La componente più progressive del gruppo acquista in questo lavoro una certa perentorietà che, però, non va mai ad appesantire il risultato finale (si veda ad esempio il cupo irrobustimento al centro di “The Sun”, che sembra preso dal prog più maligno degli anni ’70) né a togliere minuti o visibilità agli altri ingredienti della ricetta dei nostri. Per gli amanti del power tirato, infatti, il finale galoppante di “Jupiter” e il conseguente attacco dinamico di “Saturn” resteranno probabilmente ben impressi nella mente, mentre i fan legati a tracce enfatiche e d’ampio respiro gioiranno con l’arrivo dell’ottima “Primum Mobile”, a mio avviso uno degli apici del lavoro: una strumentale grintosa e ottimamente strutturata, non priva di una certa ariosità, in cui gli strumenti si fondono in modo impeccabile per veicolare emozioni in continua evoluzione.
Chiude l’album, come sempre in questa trilogia, una lunga traccia intitolata “Stars”, in cui i nostri infondono tutti gli elementi della loro musica mescolando senza soluzione di continuità parti più movimentate e pause quasi intimiste, cori di voci bianche ed altri ben più solenni, intermezzi dal profumo hard rock e ritmi tipicamente prog, il tutto coronato dalla celeberrima (ed anche in questo caso davvero imprescindibile, seppur sforbiciata) citazione finale, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
“Divina Commedia: Paradiso” è un ottimo album, oltre ad essere il giusto coronamento dell’ambiziosa idea di un gruppo che ha mantenuto le sue promesse iniziali – in un contesto dov’era fin troppo facile scivolare malamente – e si pone come ulteriore tassello per la sempre più solida discografia degli Starbynary, compagine affiatata e dalle capacità indiscutibili che si dimostra a suo agio nel giro della musica di classe, senza timori o false modestie. Sempre meglio.