Recensione: Dream Theater

Di Tiziano Marasco - 24 Settembre 2013 - 10:00
Dream Theater
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2013
Nazione:
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73

Che sarebbe uscito quest’anno lo sapevamo tutti. Perché come la musica prog ama i tempi dispari, i Dream Theater amano pubblicare i loro nuovi dischi negli anni dispari secondo una logica che dal 2003 ad oggi li ha visti sfornare sei prove discografiche con cadenza biennale e regolarità da orologio svizzero. A tal proposito sarebbe anche opportuno sfatare la diceria per cui tale regolarità dei nordamericani sia dovuta ad un sempre più profondo inviluppamento negli ingranaggi del music business. Se guardiamo in giro infatti non c’è band che, raggiunto un “certo” successo, non rallenti la produzione e diluisca le uscite con distanza di tre o più anni, delegando il compito di rimpinguar le tasche ai soli live e alle sole raccolte. Non bastasse ciò, si tenga presente che i nostri, nel bene e nel male, hanno sempre cercato non tanto di rinnovarsi quanto di cercare nuove influenze e nuove vie con cui arricchire i loro lavori. E lo sforzo va premiato rispetto alla scelta di riproporre a vita lo stesso disco scannerizzato e fotocopiato. Con risultati discontinui, alterni e controversi. Soprattutto da quando il numerino che indica il millennio in cui ci troviamo è passato da 1 a 2. Anzitutto è stata la volta di un Train of thought dalle idee indiscutibilmente buone ma viziato da un paio d’uscite shred da fucilazione. Poi di un disco coronato da una delle migliori suite degli ultimi tredici anni e contornato da sette canzoni brevi ma innocue, di facile presa ma di scarso impatto. Poi è uscito un obbrobrio (e qui per dovere di cronaca mi dissocio dalla recensione fatta a suo tempo dall’illustrissimo Ric e basta) e ancora un album di canzoni molto, molto buone, eppure ciascuna dotata di una vita indipendente, sicché il l’album in questione, sebbene più che discreto, non aveva un’anima molto ben definita. Infine gli eventi hanno assunto una piega drammatica, soprattutto perché uno degli ufficiali ha abbandonato la nave.

Ed è essenzialmente questo il particolare motivo di interesse che sta attorno a Dream Theater: la perdita di Mike Portnoy, e questo per due motivi. Da un lato perché toglie al gruppo quell’elemento istrione, tamarro, e diciamo pure parecchio ignorante che il corpulento drummer incarnava. Dall’altro perché Mike era anche una delle menti più attive all’interno della band e, bene o male, in questi ultimi dieci anni era stato lui ad indicare la via del prog agli altri quattro. Un prog che si era fatto via via sempre più tenebroso e pesante. A dramatic turn of the events avrebbe dovuto essere una reazione, concretizzatasi però solo in parte. Ora, secondo quanto detto dai nostri è il momento della rinascita artistica. Sicuramente, almeno si spera, non fa parte della rinascita la scelta di una cover oscena, ai minimi storici per quanto riguarda gli standard di una band che ha sempre fatto dell’effetto grafico un punto focale dei propri lavori. Ma lasciamo stare.

Bisogna dire invece che la promozione di questo disco è stata decisamente pionieristica, quasi degna dei Radiohead. Al di là della canzone promozionale, The enemy inside, un pezzo che non lascia trasparire molto più che ritmi serrati e un buon ritornello (anche se chi aveva, a suo tempo, definito A rite of passage “banale”, in questa sede deve essersi andato ad impiccare) la vera idea vincente è stata quella di rendere disponibile il disco prima della sua pubblicazione. Ma soltanto in streaming. Alla faccia della retorica gavanella di Itunes secondo cui ti compri solo la traccia che ti piace. La pubblicazione in streaming infatti ci ha costretti tutti ad ascoltare il disco nella sua interezza, da chi ha comprato When dream and day unite in cassetta fino ai tredicenni che uno sforzo simile se lo sarebbero volentieri risparmiato.

L’ascolto ad ogni modo mette un disco che, per la prima volta in dieci anni, vede continuare le linee guida del suo predecessore, sebbene con delle debite differenze. Sostanzialmente tre: un marcato recupero delle radici prog settantiane, una decisa virata verso  orchestrazioni cinematografiche ed un recupero di atmosfere tipiche dei primi Dream Theater (soprattutto tra Awake e Metropolis pt. II) più prog e meno hard insomma. Queste tre caratteristiche comunque non sono comuni a tutte e 9 le composizioni.

La opener ad esempio mette in mostra soltanto delle strabordanti, ampollosissime orchestrazioni che sembrano uscite da Once e Imaginareum dei Nightwish, solo più pesanti. E già qui dovremmo spendere alcune parole su False awakening suite, a suo modo una piccola genialata, dato che i campioni del prolisso stavolta ci offrono una suite strumentale di appena 2 minuti e 40 secondi,  nella quale la coppia Rudess – Petrucci evita di scadere in onanismi (inaudito!). Detto invece del singolo, decisamente debitore di Black clouds come di Systematic, passiamo subito a The looking glass, laddove il recupero del passato si fa manifesto fino a raschiare la citazione. C’è poco da dire in realtà per presentare questo pezzo breve ed orecchiabile ma se non state attenti al secondo giro di chitarra vi troverete ad urlare XAAAANAAADUUUUU (e dico tutto).

Con Enigma Machine veniamo posti invece innanzi al primo immancabile scivolone cui il teatro ci ha abituato da diverse uscite. Strumentale da sei minuti, ritmi serrati e glorificazione del Petrucci furioso, il vero enigma è perché i nostri abbiano deciso di includerla in scaletta. Il pezzo non è completamente da buttare, in Train of thought ci sarebbe stato anche bene, ma in questa sede riesce solo ad appesantire il risultato finale – secondo una teoria per cui i dischi della band successivi a 6 degrees, a causa di ragioni sempre diverse, finiscono sempre per durare un quarto d’ora di troppo. Anche la successiva The bigger picture, col suo miscuglio di dolcezza, drammaticità e un occhio (miope ed astigmatico) di riguardo a Peter e Phil non è un pezzo esaltante, ma comunque sufficiente grazie a diversi buoni spunti. Va meglio a Behind the veil, anche in questo caso fedele ai due artisti menzionati prima e decisamente in linea con A dramatic turn. In questo caso però la song è costruita con molto sentimento ed il pathos si accumula per essere tradotto da un refrain di ottimo livello. I Rush tornano invece prepotenti in un altro ottimo pezzo di progressive metal frizzante e mutevole che ci riporta ancora una volta ai Dream Theater del primo decennio, con atmosfere che non si erano sentite per davvero troppo tempo. E stesso discorso per l’ottimo nuovo singolo Along the ride, leggero ed apparentemente semplice, ma decisamente lontano dall’insulina di Wither come dall’eccessiva semplicità di I walk beside you. E qui un po’ di ringraziamenti agli Yes andrebbero spesi, e per la strutturazione del pezzo e per le tastiere di Jordan Rudess, che nel corso della sua carriera più e più volte ha dimostrato il suo amore sconfinato per la terza parte di And you and I. Un pezzo dove veramente ha senso parlare di Teatro del sogno,  così come la gran suite conclusiva, Illumination theory. Decisamente molto più impegnativa di Octavarium ma forse pure di A change of seasons, è un pezzo che naturalmente fa da sunto dell’album e nel quale troverete di tutto: suoni decisamente settantiani all’inizio, una buona II parte costruita secondo i canoni della canzone vera e propria, una divagazione tastieristica che omaggi gli yes più atmosferici, ulteriori orchestrazioni alla Nightwish, l’incontro di Tool e Pink Floyd e l’immancabile chiusura prosopopeica. Pezzo ostico, per quanto le impressioni siano quantomai buone affidiamo ai prossimi mesi il dovere di decretare se possa entrare o meno tra i cavalli di battaglia dei nostri.

Posto il fatto che l’uscita di un album dei Dream theater scatena una gamma di reazioni disparate ma soprattutto in quantità tale che le intenzioni iniziali della band a riguardo slittano in secondo o terzo piano, ci si trova a dire che questa dodicesima fatica è, per l’ennesima volta discreta. Vi sono molti battiti di cuore inframezzati da sparuti sbadigli, ma è innegabile che, una volta tanto, il disco cresce con gli ascolti, mentre buona parte dei predecessori tendeva ad annoiare. Ma l’idea è che il colosso del progressive metal abbia voluto dare una continuità a quanto sentito nel disco precedente, probabilmente con l’intenzione di aprire una terza fase del proprio percorso artistico, questa volta all’insegna della stabilità ed i un recupero del proprio sound nei nineties piuttosto che della sperimentazione a tutti i costi. Con pro e contro che, bene o male ed ancora una volta, si compensano.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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