Recensione: Eparistera Daimones
Per onestà intellettuale, bisogna essere subito chiari: chi non è abituato all’approfondimento deve lasciar perdere Eparistera Daimones (“Alla mia sinistra, i demoni”) e passare la mano. Triptykon, lo stadio attuale e forse finale dell’evoluzione di Thomas Gabriel Fischer (a.k.a. Tom G. Warrior), è una creatura aliena come quelle disegnate da Hans Rudolf Giger nell’incredibile, dissennata opera “Vlad Tepes”; che fa da copertina all’album. Creature impossibili, dalle forme sinuose, le cui incomprensibili ombre possono svelarsi, forse, a seguito di una lunga e profonda osservazione.
L’immersione nell’incommensurabile Universo creato dalla geniale mente di Fischer può, infatti, verificarsi attraverso uno sforzo di concentrazione sì da rifiutare gli ascolti superficiali. Non mi si fraintenda: Eparistera Daimones non è un disco per eletti. Semplicemente, è un mezzo per sondare le più nascoste voragini del lato oscuro della personalità umana. E per ciò, è imprescindibile un approccio ponderato e intimista, lontano dalle luci della ribalta.
«As Celtic Frost arose from Hellhammer’s ashes, so arises Triptykon from Celtic Frost’s ashes»
Il progetto Triptykon – moniker in omaggio ai trittici medievali come quelli di Hans Memling o Hieronymus Bosch – è il terzo spigolo del triangolo magico che lega il neonato act (2008) ai leggendari Hellhammer e Celtic Frost, figli ormai defunti di Fischer; il quale si circonda, all’uopo, da musicisti di tutto rispetto e di comprovata fedeltà alla linea: V. Santura (Dark Fortress), Norman Lonhard (Fear My Thoughts) e l’amica Vanja Slajh. La rilevante progressione tecnica e artistica dello svizzero, iniziata nel 1983 con i primi, rudimentali esperimenti di metal estremo (“Death Fiend”), trova in Eparistera Daimones un punto di rilancio per l’esplorazione dei sentieri che conducono all’inevitabile appuntamento con l’arcigno mietitore.
Difficile se non impossibile tentare di inquadrare lo stile unico e inimitabile del quartetto di Zurigo: lo zampino viene messo nel black, nel death e nel doom dando vita a una sembianza indefinita tuttavia senza pari. Questo, a parere di chi scrive, è sintomatico di una sublimazione dell’astrazione musicale raggiungibile solo dai fuoriclasse. Thomas Gabriel Fischer, appunto. E se lo spirito dell’ascoltatore si «accorda» con quest’astrazione, si verifica la comunione con la forma mentis dell’artista, propedeutica al definitivo ingresso di Eparistera Daimones nella personalità del percettore.
Proprio dal doom più funereo emerge l’opener Goetia: accordi d’ascia lentissimi, insalubri, provenienti dalle lande più desolate che la mente umana possa immaginare squarciano l’immobile atmosfera in cui si è, già, sprofondati inesorabilmente. Il senso di vertigine aumenta con il procedere in mid-tempo del brano, quando Fischer lacera l’etere con voce roca e con la chitarra dal suono irrimediabilmente decomposto. Il riffing – minimale – si deforma, rallenta, accelera; non abbandonando nemmeno per un istante il mood mortifero della canzone. La spaventosa cappa di zolfo che opprime il respiro aumenta la pressione sulla gabbia toracica con Abyss Within My Soul: la rabbia che permea il refrain è palpabile, gli arpeggi semi-distorti delle sei corde alienanti. Il delirante viaggio nell’ignoto, ormai, ha superato il punto di non-ritorno. Si entra quindi nelle gelide e desertiche distese di In Shrouds Decayed, accompagnati da linee vocali meno aggressive, più distaccate e – in particolar modo nel chorus – trasognanti; con un guitarwork che riprende in pieno quel che di più marcio c’era negli ultimi Celtic Frost (“Monotheist“, 2006). Shrine è il ponte sull’orrido abisso atto a collegare il precedente brano con A Thousand Lies, unico episodio movimentato del disco. La velocità non è eccessiva, ma la sciolta dinamica del ritmo e le urla scomposte rendono la song inquietante e maligna. Si ritorna poi nell’iper-slow: Descendant trascina stancamente le proprie membra ricordando in ciò il viscido movimento dei blasfemi abitanti dell’Innsmouth di Howard Phillips Lovecraft. Solo alla fine del brano – in concomitanza con il celebre «Uh!» di Fischer e con i soli di chitarra – si riprende un po’ di rapidità. Tempi dannatamente cadenzati e armoniche vocali dissonanti costituiscono la spina dorsale di Myopic Empire, nobilitata verso la fine da un pregevole intermezzo al pianoforte. Per evitare soluzioni di continuità, le tastiere fanno da apripista nella successiva, eterea My Pain, dolcemente melodica. Una sorta di bizzarra ballata sulle ali di una sommessa voce femminile. Il platter viene chiuso dalla suite The Prolonging, un vero e proprio «album nell’album». La voce di Fischer, qui, assume un tono stentoreo che guida saldamente per mano il viaggiatore nella depressa parte finale della lunga migrazione (oltre un’ora e dieci minuti) nei meandri dell’Io interno. Il timbro delle chitarre sembra decretare la fine – appunto – in «una massa quasi liquida di disgustoso, repellente putridume» (Edgar Allan Poe, “La verità sulla vicenda del signor Valdemar”, 1845).
È ancora troppo presto per stabilire se Eparistera Daimones farà parte della ristretta cerchia dei capolavori, ove fa bella mostra di sé “To Mega Therion“ (1985). Forse ciò non accadra. Non c’è grande innovazione, qua e là c’è un po’ di ridondanza e la scrittura non è troppo tecnica ma, si sa, a volte questi requisiti sono solo sufficienti quando non manca quello necessario di saper dar vita a così tante emozioni con la musica.
Quel che è certo, comunque, è che l’opera si può considerare già sin d’ora un caposaldo inamovibile della più visionaria espressione del metal estremo: ogni singola nota, dietro, ha un’anima.
Terribilmente, paurosamente oscura.
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Track-list:
1. Goetia 11:00
2. Abyss Within My Soul 9:26
3. In Shrouds Decayed 6:56
4. Shrine 1:43
5. A Thousand Lies 5:28
6. Descendant 7:41
7. Myopic Empire 5:47
8. My Pain 5:19
9. The Prolonging 19:22
Line-up:
Thomas Gabriel Fischer (a.k.a. Tom G. Warrior) – Vocals, Guitars, Programming
V. Santura – Guitars, Vocals
Vanja Slajh – Bass
Norman Lonhard – Drums, Percussion