Recensione: Fires on the Mountainside

Di Stefano Usardi - 17 Luglio 2025 - 10:00
Fires on the Mountainside
Band: Fer de Lance
Etichetta: Cruz del Sur
Genere: Epic  Heavy 
Anno: 2025
Nazione:
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80

La settimana scorsa mi trovavo sulle spiagge di Milos per un po’ di ferie, ma nonostante il sole, lo sciabordio delle onde sulla spiaggia, la dolce compagnia al mio fianco e l’atmosfera generale che si respira sulle isole greche prima dell’invasione vera e propria dei turisti mi sono reso conto che mancava qualcosa per rendere il quadro perfetto. Dopo un attimo di riflessione ho tirato fuori dallo zaino il mio fido lettore mp3 e mi sono immerso nell’ultimo, notevole lavoro degli americani Fer de Lance, rimettendo finalmente in equilibrio i piatti della bilancia. “Fires on the Mountainside”, questo il titolo del lavoro, arriva a tre anni dall’altrettanto ottimo debutto del gruppo di Chicago, “The Hyperborean”, e ne smussa mirabilmente i pochi spigoli continuando a proporre un metallo epico e sanguigno sporcato di folk e squarciato da improvvisi fendenti più gelidi e ferini. Echi di Atlantean Codex e Rainbow si fanno largo di tanto in tanto durante i tre quarti d’ora abbondanti di “Fires on the Mountainside”, che mescola influenze e suggestioni in una materia sonora altamente evocativa infilandoci dentro anche qualcosina di Manowar, Blind Guardian e Bathory. Il metallo dei nostri sfrutta il continuo moto ondoso di chitarre ipnotiche e sognanti e una sezione ritmica precisa e pulita per tratteggiare paesaggi antichi, alla deriva nel tempo, anche grazie alle intromissioni dal sapore folk e gli arpeggi medievaleggianti che tanto profumano della Krefeld degli anni ‘90, ma sa anche farsi vorticoso e feroce durante le improvvise sfuriate dal sapore scandinavo. Questo consente al quartetto di Chicago di punteggiare una matrice di partenza apparentemente statica con la giusta quantità di variazioni, giocherellando con profumi diversi per donare rotondità alle canzoni. A condire il tutto ci pensa la voce squillante e iraconda di MP, capace di colorare ogni anfratto del lavoro con la sua verve propositiva ed impattante a metà strada tra Ronnie James e Stu Block.

Il compito di aprire le danze è affidato alla title track, lunga suite di quasi tredici minuti che detta subito il tono del lavoro. “Fires on the Mountainside” si apre con una melodia eroica che in un minuto sfuma in un arpeggio da ballata antica; il pezzo guadagna corpo, divenendo una marcia trionfale maestosa e solenne. L’indurimento centrale arriva in sordina, come un temporale estivo, e sfuma a sua volta in un momento più dimesso e carico d’attesa che torna alla melodia portante insinuandovi, però, raffiche più feroci. Il pathos anthemico torna padrone della scena in tempo per il lungo climax che sfuma di nuovo in un arpeggio dimesso, come per concludere un racconto intorno al fuoco. Più che una opener, una dichiarazione d’intenti. Una melodia sognante apre “Ravens Fly (Dreams of Daidalos)”, salvo poi cedere terreno ad un tiro più ritmato e danzereccio, dallo smaccato sapore folk seppur marcato stretto da inflessioni più solenni. Il pezzo prosegue così, mescolando le due anime senza soluzione di continuità finché il solo non arriva a scompaginare le carte, sfumando in una melodia sognante ma dall’alto tasso di epos prima di tornare ai ritmi insistiti in tempo per la chiusura. Un brusco cambio di atmosfera apre “Death Thrives (Where Walls Divide)”, brano decisamente più arcigno che si poggia su un ritmo quadratissimo e melodie luciferine: solo il ponte concede un attimo di respiro cercando un respiro meno soffocante, ma tutto si risolve in un fuoco di paglia con l’arrivo di un ritornello cupo e disperato. La successiva “Fire & Gold” abbandona la cupa angoscia del brano che l’ha preceduta per spandere intorno a sé profumi carichi di aspettativa: l’arpeggio di fondo, insistito e pulsante, si mescola con improvvisi lampi enfatici, ottimamente sorretti dal vocione di MB, ma alla fine il brano lascia un po’ di amaro in bocca per l’assenza di un vero climax che lo coroni, rendendolo di fatto un ottimo intermezzo pompa–adrenalina in vista della cannonata che lo segue. “The Feast of Echoes”, infatti, si presenta fin da subito con un fare smargiasso e cafone, in cui gli inserimenti sulfurei dell’organo sostengono un andamento quadratissimo, arrogantemente heavy, che sembra citare in più occasioni i Sabbath di “Heaven and Hell”. Il pezzo guadagna velocità, ma anche nei momenti più ferini non perde mai quell’aura mefistofelica ed orrifica che viene solo diluita nei rari passaggi più solenni nella seconda metà del brano. L’enfasi si riappropria della scena con la maestosa “Children of the Sky and Sea”, altra marcia trionfale ad alto tasso di testosterone dominata da una melodia ariosa ma energica. L’intermezzo dimesso che apre la seconda metà del pezzo esplode subito di una nuova determinazione, che in breve si lega al finale altisonante. Il compito di chiudere il sipario su “Fires on the Mountainside” è affidato a “Tempest Stele”: un arpeggio teso e carico di aspettativa apre ad una melodia riarsa, che serpeggia su tempi scanditi spandendo intorno a sé un’aura cavalleresca dai profumi esotici. Questi profumi restano nell’aria anche quando il pezzo si trasforma in una sorta di danza vorticosa inframmezzata da fraseggi più introspettivi e melodie mediorientali, e chiude ottimamente un lavoro di tutto rispetto.

Non ho timore nel dire che “Fires on the Mountainside” è proprio un gran bel lavoro, compatto e avvincente: i nostri baldi americani giocano spesso con velocità medio basse, prediligendo la marcia anthemica anche quando le atmosfere si fanno più cupe o quando le chitarre vorrebbero spingere un po’ di più, ma nonostante questa staticità ritmica riescono ad infilare parecchia ciccia in ogni brano senza perdere in coesione ed organicità, mantenendo anzi un bel tiro battagliero e tempestoso e il giusto rapporto tra testa e cuore. Consigliatissimo.

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