Recensione: From the new world

Di Vito Ruta - 17 Luglio 2022 - 0:32
From the new world
Band: Alan Parsons
Etichetta: Frontiers Music
Genere: Altro  Prog Rock 
Anno: 2022
Nazione:
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73

Risulta arduo condensare in poche righe la storia di quanti, nel corso di svariate decadi, hanno offerto tanto, non solo in termini quantitativi, alla musica. E’ il caso di Alan Parsons e del suo progetto, la cui produzione è entrata fisiologicamente nel nostro dna.

L’Alan Parsons Project vede la luce nel 1975 dall’incontro tra Eric Woolfson, avvocato-manager-produttore, con il pallino per la musica, che si scoprirà abile compositore dalla voce più che discreta, e dall’ingegnere del suono Alan Parsons che aveva contribuito alla creazione di uscite epocali, quali “Let it be” dei Beatles, “Atom Hearth Moter”, “Meddle” e “Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd (album, quest’ultimo, a cui è maggiormente legata la sua fama e che gli valse una delle undici nomination in carriera ai Grammy Awards per la categoria Best Engineered Recording).
Il progetto Alan Parsons, che incuriosiva e affascinava perché non  direttamente legato al volto di un artista, ma governato da una entità misteriosa dall’innegabile capacità di creare universi musicali, si avvaleva di volta in volta di musicisti e cantanti di prim’ordine e si caratterizzava per l’accostamento di tecnologie elettroniche a elementi di rock sinfonico, classico e progressive.

Per “l’asso piglia tuttoFrontiers Music, Alan Parsons presenta “From The New World”, suo sesto lavoro solista che (come tradizione vuole) vede a questo giro la collaborazione dei cantanti/chitarristi Joe Bonamassa e Tommy Shaw degli Styx e si avvale, altresì, delle voci di David Pack (Ambrosia) e James Durbin.
La collaudata ricetta, divenuta marchio di fabbrica dell’Alan Parsons sound, non subisce variazioni neppure questa volta, sebbene gli spunti progressive in questo album siano quasi del tutto assenti, a favore della massiccia presenza di sonorità pop rock.

L’incipit elettronico dell’apripista “Fare Thee Well” si allarga in un gran bel pezzo orchestrale dalle reminiscenze floydiane con tanto di assolo di sax che precede un cambio di tempo e melodia.
The Secret” è un brano altrettanto gradevole in puro stile Alan Parsons anni ‘80, a cui segue “Uroboros” che mette alla voce Tommy Shaw a guidare la traccia più rock e ipnotica dell’album.

Don’t Fade Now” trasmette grande serenità.
Il clima primaverile e rilassato viene mantenuto nella prima parte della seguente “Give ‘Em My Love” che, ad un certo punto, subisce una accelerazione nel ritmo e nella emotività dell’interpretazione di James Durbin, il quale dalla partecipazione alla decima stagione di “American Idol” ha visto decollare la propria carriera solista, passando attraverso una militanza di due anni, quale lead singer, nei Quiet Riot.

Le influenze floydiane tornano prepotenti in “Obstacles” che cede il passo alla romantica “I Won’t Be Led Astray” nella partecipata interpretazione di David Pack. Da segnalare l’intenso solo di Joe Bonamassa.
You Are The Light” riporta ad atmosfere più briose e movimentate con un pop rock di grande qualità.
Halo”, dalla entusiasmante ritmica, unisce l’elettronica alla melodia nella maniera in cui Alan è indiscusso maestro e richiama in maniera più evidente,   rispetto a “The secret” e “Uroboros”, lo stile di Peter Gabriel della fase solista “Quindi, alziamoci” (“So”, “Us”, “Up”). Per quanto mi riguarda la gemma del lavoro.
L’orchestrale “Goin’ Home” è un pezzo essenziale e struggente che mescola atmosfere vagamente country a suggestioni da odissea nello spazio.

Chiude in maniera del tutto inaspettata (e dal punto di vista musicale, rispetto alle tracce precedenti, incongrua, a meno che non si voglia pensare che sia l’influenza della pop music sulla cultura di massa l’elemento conduttore di questo album) la cover di “Be My Baby”, canzone dei primi anni sessanta, interpretata dal terzetto femminile “The Ronettes”, considerata da Brian Wilson, fondatore dei Beach Boys, come il più grande pezzo pop mai creato.

L’album contiene brani godibili, (eseguiti e mixati in maniera ineccepibile non è neppure il caso di dirlo), ma lascia l’impressione che sia stato ottenuto dall’assemblaggio di outtakes di precedenti lavori, non avendo la coerenza a cui Alan Parsons e il suo Project (che del concept, basato ogni volta su un argomento specifico, hanno fatto un elemento caratterizzante) ci hanno abituato.

“Dal nuovo mondo” giunge la notizia che il culto di Alan Parsons non è esente da un certo declino, anche se il suo genio e la sua classe non sono in discussione.

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