Recensione: Gaia III – Atlantia

Di Eduardo Segura - 11 Maggio 2010 - 0:00
Gaia III – Atlantia

I Mago de Oz sono da qualche anno una delle realtà spagnole più consolidate, non solo in madre patria, ma anche in tutta l’America del sud e centrale, avendo il picco di fanatismo proprio in Messico, e in vari paesi d’Europa tra cui Germania e ultimamente anche l’Italia.

Con questo Gaia III – Atlantia si conclude una parte molto importante per la storia della band, cominciata nel 2003 con Gaia, passando per la maestosità di Gaia II : La Voz Dormida nel 2005 e chiudendo la trilogia con questo capitolo finale.

L’album esce quindi dopo un’attesa di ben 5 anni, durante i quali gli iberici non sono stati con le mani in mano e, tra un tour e l’altro, hanno sfornato il più intimista La Ciudad de los Arboles (2007), con cui tornano a sonorità puramente folk, lasciando da parte le composizioni altisonanti e intricate del concept Gaia.

Ed è proprio dal lato compositivo che Gaia III stupisce, lasciandoci apprezzare la piena maturità che il combo ispanico ha raggiunto dopo 20 anni di carriera. Per tutta la durata dei due dischi, infatti, abbiamo una band in cui ciascun membro padroneggia i propri strumenti che, grazie ad una eccezionale produzione da parte di Alberto “Tocapelotas” Seara, trovano il giusto spazio e collocazione in ogni canzone. Anche la voce di José Andrea, da sempre indiscussa protagonista, abbassa i toni e i volumi, lasciando spazio alla potenza delle chitarre e dei cori, questi ultimi curati in ogni minimo dettaglio dal sempre ottimo Toni Menguiano. Dal punto di vista stilistico è difficile inquadrare un genere. Gaia III – Atlantia è la somma di tutte le influenze che i Mago hanno assorbito in questi ultimi anni: dal power duro e puro all’industrial metal in stile Rammstein, passando per riff hard’n’heavy a ballate acustiche dalle tinte ottimistiche.

Balza subito all’orecchio che i momenti folk, da sempre punti salienti del Mago-sound, si presentano con il contagocce. Nonostante ciò, l’intero album trasuda Mago de Oz al 100%. L’album si apre con El Latido de Gaia, in cui una radio ci riporta alcune notizie delle ultime catastrofi planetarie come il terremoto di Haiti, oppure annunci non molto recenti come la morte di Franco. La sequenza si spezza con la voce del giornalista Dani Mateo, che ci legge un testo veritiero sull’inutilità della razza umana, come se fosse proprio un notiziario reale.

La parte musicale è un misto tra orchestrazioni campionate, parti elettroniche e rock, qualcosa che mai i Mago ci avevano fatto sentire prima d’ora nelle loro precedenti intro, lasciando quindi da parte la magniloquenza delle aperture dei precedenti capitoli.

La melodia di piano con cui parte Dies Irae riporta tutto alla calma, con la voce di Josè sempre espressivamente intensa. Il piano s’interrompe di colpo per dare spazio agli archi ed ottoni che aprono il coro in latino “Dies irae malleus maleficarum est” per poi partire con una vera cavalcata power metal, dove si distingue il bel ritornello tipico dei Mago de Oz, orecchiabile e vincente. Degno di nota l’intermezzo classico con la Badinerie di Bach, che s’inserisce in tra gli ottimi assoli di tastiera e delle chitarre di Carlitos e Salàn.

Con Fur Immer arriva la prima vera sorpresa: un sintetizzatore spiana la strada al ritornello cantato in tedesco, che verrà ripetuto ossessivamente durante tutto il brano. La potenza delle chitarre accompagnano la voce di Josè, che in questa occasione si immedesima niente meno che in Hitler, dando vita a un brano in stile Rammstein, con un bel arrangiamento made in Mago de Oz. Un grido inaspettato cambia l’atmosfera dando inizio alle danze con Vodka’n’roll, pezzo tiratissimo di folk metal di stampo nordeuropeo. La collaborazione di Kutxi Romero dei Marea è azzeccatissima per un brano che scatenerà sicuramente la folla dal vivo.

El Principe de la Dulce Pena (parte IV) vede la partecipazione alla voce di Carlos Escobedo e trasporta l’ascoltatore in angoli oscuri, con un testo che definire gotico è poco. Un brano senza troppe pretese, che riesce comunque a dare quella sensazione di tristezza e decadenza voluta, grazie anche all’ottimo apporto di Patricia Tapia, vera gemma vocale che impreziosirà l’intero album.

I madrileni ci provano gusto a sballottarci qua e là con le nostre sensazioni e con Mi hogar eres tu ci catapultano direttamente negli 80s, con un pezzo hard’n’heavy irresistibile, dove finalmente ritroviamo un po’ del vecchio Mago. Non solo le chitarre sono ottime, con degli assoli molto ispirati, ma tutta la parte strumentale è da urlo: flauto, violino e tastiera si intrecciano facendoci gustare uno dei migliori momenti di tutto il primo disco.

Nella strumentale Fuerza y Honor (El Dorado) i Mago de Oz incontrano i Rondò Veneziano e in cinque minuti scarsi danno vita ad una eccellente dimostrazione tecnica e melodica, dove tutti gli strumenti diventano protagonisti e danno il meglio di sé, con una menzione speciale al basso di Peri. El Violin del Diablo inizia con una chitarra solitaria, a cui si aggiunge la voce malinconica di Patricia, che ci dimostra ancora una volta tutto il suo talento. Con la sua voce riesce a dare quel tocco di disperazione e drammaticità che dà veramente i brividi. Ancora una volta la parte strumentale è da elogio. Un brano da vivere a occhi chiusi.

In chiusura della prima parte troviamo la ballata d’ordinanza Siempre (Adios Dulcinea parte II). Purtroppo, però, risulta fin troppo ordinaria, con un retrogusto di già sentito che non riesce a convincere del tutto, nonostante l’ottima prestazione del vocalist. Le chitarre sono lasciate troppo in disparte, dando addirittura l’impressione che siano capitate lì per caso e quei beat elettronici nella prima parte sono veramente di troppo. Solo il testo e i cori salvano definitivamente la canzone, che però non raggiunge i picchi emotivi della meravigliosa Desde mi Cielo. Una melodia scandita da un oboe apre il secondo disco con Mis demonios, che ci riporta ad atmosfere cupe, con chitarre molto oscure e linee vocali tetre. Una buona canzone, incentrata sulla dipendenza di alcool e droghe, rovinata purtroppo da alcuni arrangiamenti di sintetizzatore che stonano in alcuni passaggi.
È il momento del singolo Que el viento sople a tu favor, e ovviamente troviamo esattamente ciò che ci aspettiamo: folk metal festaiolo con ritornello da cantare a squarciagola, di cui i nostri sono veri maestri.

Sueños dormidos è il momento più toccante di tutto l’album, insieme alla titletrack finale. Un mix di flamenco e rock, con un flauto che fa sognare e commuovere, un assolo di chitarra sublime, il duetto tra Josè Andrea e Patricia da lacrime e il testo poetico di Txus che ben descrive l’angoscia di un malato di Alzheimer.

Una pausa di riflessione ce la regala Aun Amanece gratis, ballata acustica sostenuta dal piano di Kiskilla. Non c’è molto da dire su questo brano. La voce, insieme al flauto di Fernando e al violino di Moha, ci cullano fino alla successiva traccia, l’indescrivibile La Soga del Muerto (Ayahuasca), momento di pura eccentrica pazzia, da affrontare con una certa dose di ironia. Da sottolineare la prova davanti al microfono di Josè, che sembra proprio sotto l’effetto della Ayahuasca (erba medicinale usata dagli Incas, che può anche produrre allucinazioni). Prima di descrivere i capitoli finali dell’album, una nota di dovere sulla storia. Finora la presenza di Gaia, lo Spirito della Terra, è scivolata nascosta in mezzo ai testi, essendo questi solo dei pezzi di un puzzle che completano la storia verso un finale apocalittico.

Eccoci quindi ad affrontare La Ira de Gaia, vero e proprio ultimatum agli essere umani. Linee vocali molto arrabbiate, riff rocciosi e tastiere minacciose, con un intermezzo molto lento e melodico, in cui le voci di Francis Sarabia e Patricia ci decantano le ultime speranze di una Madre Terra ormai allo strenuo delle forze e della sopportazione…“No existe futuro…Mata a los humanos”. Arriviamo dunque all’atto finale, la suite di 19 minuti Atlantia, la resa dei conti tra Gaia e la nostra “civiltà”. Suite difficile da descrivere brevemente, in quanto ricca di particolari che ne fanno un vero gioiello musicale, con un finale da brividi con la lettera dai toni sconsolati di Txus che pone fine addirittura all’intero Pianeta.

Un’ultima nota sulla votazione: musicalmente il disco si merita un 78, è un buon album che chiude degnamente la trilogia, ma personalmente mi permetto di dare cinque punti in più per il coraggio di osare che dimostrano i Mago de Oz, quella voglia di stupire sempre l’ascoltatore e soprattutto, le forti emozioni che riescono a trasmettere con le loro canzoni e le loro idee. E, a questi livelli, non sono in tanti a poter dire di esserci riusciti.

Hasta luego Cabrones!!!

 

Eduardo “Kurai-sama” Segura

 

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Tracklist:

CD 1
1.El Latido de Gaia (Intro)
2.Dies Irae
3.Für Immer
4.Vodka’n’Roll
5.El Príncipe de la Dulce Pena (Parte IV)
6.Mi Hogar Eres Tú
7.Fuerza y Honor: El Dorado
8.El Violín del Diablo
9.Siempre (Adiós Dulcinea – Parte II)

CD 2
1.Mis Demonios (Atrévete a Vivir)
2.Que el Viento Sople a tu Favor
3.Sueños Dormidos
4.Aun Amanece Gratis
5.La Soga del Muerto (Ayahuasca)
6.La Ira de Gaia
7.Atlantia