Recensione: God & Guns

Di Fabio Vellata - 27 Settembre 2009 - 0:00
God & Guns
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Anno: 2009
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86

I guess I’ve lost everything I’ve had
But I’m not dead, at least not yet
Still alone, still alive, Still unbroken
I’m still alone, still alive,
I’m still Unbroken

Never captured, never tamed
Wild horses on the plains
You can call me lost – I call it freedom

I feel the spirit in my soul
It’s something Lord I can’t control
I’m never givin up while I’m still Breathin!

Si apre così, il nuovo capitolo della band più a stelle e strisce d’America. Con un inno all’indomito spirito che ne ha da sempre costituito l’anima, una sfida al destino che non ha mai lesinato colpi bassi ed un messaggio universale, che si fonde in modo univoco allo stile, alla tradizione ed alla storia di quel significativo novero d’artisti che nel corso degli anni ha incarnato e dato un volto alla saga dei Lynyrd Skynyrd.
Una storia che si perde nella notte dei tempi, fatta di speranza, poesia, lacrime, ed orgoglio. Valori molto americani, ideali estremamente carichi d’enfasi, che non intendono scolorirsi con il trascorrere del tempo, ma anzi, cercano di mantenersi – nella sostanza filosofica più che nella forma “musicale” in senso stretto – fedeli a se stessi perpetuandosi, oseremmo dire, all’infinito.

“God & Guns” è il nuovo capitolo di un’epopea legata a doppio filo con l’emblema della famiglia Van Zant, padrona delle sorti del combo di Jacksonville prima con il compianto Ronnie, scomparso nel 1977, e poi con il fratello minore Johnny, attuale frontman ed unico trait d’union con il passato insieme all’immortale (glielo auguriamo!) Gary Rossington, prima ascia dei gruppo sin dagli antichissimi esordi del 1964. Tanti i compagni di viaggio persi nel frattempo, vittime di un sortilegio che pare da sempre aleggiare sull’icona dei Lynyrd Skynyrd.

Sei anni dal precedente album, il bellissimo “Vicious Cyrcle” sono effettivamente tanti. Un lungo lasso di tempo speso guardando ai progetti solisti di Johnny (“Van Zant”, gruppo formato in coppia con il fratello Donnie, non ha mai mancato d’offrire uscite di grande qualità) come ad un qualcosa di molto vicino alla parola “fine” per il proseguimento della band madre.
Tuttavia, come il testo del brano iniziale – la tuonante “Still Unbroken” – insegna, finché lo spirito resiste, c’è sempre tempo per dirsi perduti ed abbandonare la scena.
Con una formazione rimodernata, in cui hanno preso posto i recenti acquisti Robert Kearns al basso e Peter Keys alle tastiere (in luogo dei recentemente scomparsi Billy Powell ed Ean Evans), i Lynyrd dimostrano, infatti, di saperci ancora fare, allineando una serie di canzoni che non saranno forse più identificabili con il classico e leggendario suono “Southern” di un tempo, ma mantengono, in ogni caso, intatte alcune peculiarità più classicamente rock e si mostrano capaci di attagliarsi al meglio ad un gusto moderno, pur se comunque infarcito di spunti “old style”.

Potenti, quadrati, meno solari e divertiti del solito sino a spingersi, in certi frangenti, ad accogliere atmosfere persino oscure, Van Zant e compagni sembrano ben consci di quanto sia accaduto intorno a loro, in termini musicali e personali.
I due capolavori iniziali, la già citata “Still Unbroken” e la salvifica “Simple Life”, mettono in ogni modo, il disco sin da subito sui binari migliori. Detto dell’opener, una bordata di hard rock accigliato e sanguigno, commovente nel proprio incedere duro e puro (e che emozioni il break centrale, con le chitarre di Rossington e Medlocke a rincorrersi in una tempesta di riff quasi epici), è ugualmente d’alta classe anche il secondo pezzo, munito di una produzione assai robusta ed orchestrazioni di prim’ordine, cui fa da contorno una melodia piena e tutto sommato, dai significati positivi.
La successiva “Little Thing Called You” è invece un torvo blues da moderno film western, in cui l’accoppiata di chitarre detta un ritmo che ha il southern nel sangue, anche se ben dissimulato da suoni particolarmente ruvidi. Lo stile propriamente country emerge poi nella più tradizionale “Southern Ways”, un brano “classico” che poggia su di una melodia pronta a sfociare in un chorus pieno e nostalgico, ben rappresentato emotivamente da un testo che lascia trasparire fiumi di romanticismo ed un certo rammarico per un tempo ormai passato. La “nazione” Skynyrd (“Skynyrd Nation”) prosegue con approcci contemporanei più festaioli, senza però, lasciarsi mai trascinare in una eccessiva mancanza di naturalezza. Anche in questo caso, infatti, il taglio è attuale, le chitarre rombano ed il sound si fa più ispessito e massiccio, ma lo spirito antico rimane inalterato e molto ben riconoscibile.
Romanticismo, passione ed atmosfere da orizzonti sconfinati, entrano finalmente in scena con la bellissima e delicata “Unwrite That Song”, toccante ballad di grande fascino che viene presto stoppata dall’irrompere della bizzarra “Floyd”, traccia che si avvale dell’inusuale collaborazione di Rob Zombie alla voce e ci presenta degli Skynyrd sempre “blues”, ma alquanto più oscuri ed insoliti, in virtù soprattutto di un ritornello che sa tanto di “litania da anime dannate” in pieno “Zombie’s Style”.
C’è bisogno di un ritorno alla melodia ed all’aria pulita che solo il country rock sa offrire, ed ecco quindi pronto un altro pezzo da novanta nella tracklist di questo sempre più convincente album. “That Ain’t My America”, rimette le cose al proprio posto, riconsegnandoci tutta la poesia ed il romanticismo tipico di questa meravigliosa band, con un brano vibrante ed intenso.
L’hard rock di “Comin’ Back For More” inaugura la parte finale del platter, regalando un ritornello che di certo susciterà ottimi riscontri dal vivo (belli gl’inserti di tastiera del nuovo arrivato Peter Keys), prima di dare spazio alla ciondolante title track (“God & Guns” – “Dio e pistole” – gli elementi su cui è stata costruita l’America, recita simbolicamente il testo), introdotta da un banjo sornione che accompagna una melodia “rurale” dall’apparenza placida e sonnacchiosa. Apparenza smentita nell’arco di alcuni minuti: tensione sempre più carica, sino ad esplodere in una tempesta di riff quadrati ed epicheggianti, che un po’ riportano alla memoria quanto proposto dai cugini Molly Hatchet anni fa, nel sontuoso “Devil’s Canyon”.
La pallottola successiva, ha il nome di “Storm” ed è un ulteriore esempio dell’attuale grandezza degli Skynyrd, capaci di costruire canzoni dal sapore inconfondibilmente “western” pur se mediate da un istinto rinnovato nei suoni, nella produzione e nella “durezza” vera e propria, che potrà sorprendere, ma lascia intatto lo sconfinato valore di una delle più grandi band mai esistite su questa terra.

Il finale è tutto per l’orgogliosa leggiadria di “Gifted Hands”, ultimo sussulto da tramonto infuocato, che ancora una volta commuove gli animi – evidente omaggio a chi c’era e ora non c’è più – congedandoci con la delicata fierezza tipicamente Southern da un disco stupendo, poetico, immediato ed emozionante come solo gli Skynyrd sanno comporre.

In una recente intervista, “God & Guns” è stato definito dal leader Johnny Van Zant come un tributo al passato ed al futuro” della band. In tanti temevano che ormai la Skynyrd Nation avesse alzato bandiera bianca, tuttavia, questa nuova sorprendente uscita, rimanda la pensione dei grandi redneck ancora di un bel po’, lasciando aperta la porta all’innovazione, senza mai lesinare uno sguardo romantico e struggente ai propri leggendari trascorsi.

I Lynyrd targati 2009 sono dunque un gruppo capace di regalare ancora grandi emozioni ai propri fan ed il loro rinnovato spirito è un bell’augurio per gli anni a venire, giacché, ne siamo certi, finché un Van Zant avrà respiro, un album griffato Lynyrd Skynyrd prima o poi arriverà sempre a riempire il nostro cuore.

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Tracklist:

01.    Still Unbroken
02.    Simple Life
03.    Litlle Thing Called You
04.    Southern Ways
05.    Skynyrd Nation
06.    Unwrite That Song
07.    Floyd
08.    That Ain’t My America
09.    Comin Back For More
10.    God & Guns
11.    Storm
12.    Gifted Hands

Line Up:

Johnny Van Zant – Voce
Gary Rossington – Chitarre
Rickey Medlocke – Chitarra
Michael Cartellone – Batteria
Mark Matejka – Chitarra
Robert Kearns – Basso
Peter Keys – Tastiere
Dale Krantz Rossington e Carol Chase – Cori
+
Rob Zombie – Cori
John 5 – Chitarra
 

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