Recensione: Immortalized in Suffering

Di Daniele D'Adamo - 31 Luglio 2016 - 19:48
Immortalized in Suffering
Band: Sewercide
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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60

Nati nel 2011 a Melbourne, i Sewercide, prima di giungere al debut-album, “Immortalized in Suffering”, appunto, hanno avuto modo di sperimentare più che sufficientemente il proprio sound.

Un demo (“Severe Trauma”, 2012), quattro split (“States of Decay”, 2012; “Casket / Sewercide”, 2013; “Sewercide / Presumed Dead”, 2013; “Partners in Grime – Violent Gorge Split”, 2014) e un EP (“Severing the Mortal Cord”, 2015), infatti, non sono un patrimonio discografico proprio irrilevante.

E difatti, a dispetto che “Immortalized in Suffering” sia un’Opera Prima, gli australiani appaiono assolutamente a loro agio nel genere proposto: old school death metal. Di quello puro, incontaminato. Suonato come se, invece che nel 2016, si fosse alla fine degli anni ottanta, inizio anni novanta. Partendo, cioè, dalla lezione impartita da Jeff Becerra e i suoi Possessed. Precursori o meglio iniziatori della dicotomia thrash / death.

Ora, qualcosa di loro i Sewercide ce lo mettono. Ovviamente, in primis (e, forse, nient’altro…), i blast-beats, all’epoca ancora nel Mondo della Follia. Evidentemente, non troppi. Il giusto. Tanto è vero che, in ottemperanza ai dettami della vecchia scuola, sono da prediligersi i ritmi putridi, marci, che si trascinano sulle stampelle dei quattro quarti. Pure accelerati, ma sempre contenuti entro una velocità mai parossistica. Anche se, a onor del vero, i Nostri spingono un po’ di più sull’acceleratore, rispetto alla media del genere. Arrivando in alcuni casi a pestare davvero duro (‘Acrimoniously Disharmonized’), con il rozzo e brutale drumming di Ollie Ballantyne, il cui groove è, tuttavia, più che buono per la bisogna.

Al contrario del semi-growling del bassista / cantante Tobi “Alva” Zama, troppo monocorde. Monotono. Noioso. Probabilmente, il punto debole della formazione australe. Il fatto di dover assumersi la responsabilità sia delle linee vocali, sia di quelle di basso, non deve giovare, al buon Tobi. E, alla fin fine, non tutti si chiamano Tom Araya.

Comunque sia, pecche specifiche a parte, “Immortalized in Suffering” non è che stravolga niente e nessuno. Anzi, la scolarità del lavoro è sin troppo esagerata. Dedizione alla causa sì, rispetto dell’ortodossia sì. Ma, in alcuni passaggi (‘Megalithic Tomb’), sembra che si vada avanti perché… si deve. Il che non giova alla causa, soprattutto a livello di songwriting. Più che sufficiente come teoria e applicazione, purtroppo tedioso. E nemmeno a lungo andare. La prevedibilità di “Immortalized in Suffering”, song dopo song, è notevole, e già alla quarta / quinta traccia non ci si aspetta più alcuna sorpresa. I Sewercide, cioè, non paiono in gradi di fare la differenza fra un full-length ordinario, e uno notevole.

Sufficienza in corner, con almeno due meno.

Daniele D’Adamo

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