Recensione: Live, Suffer, Die
Da qualche parte nel 1984 a New York venne avviato il reattore nucleare che imperversò poi fino alla metà del decennio successivo. I due scienziati col camice bianco che dettero il via alla catena di montaggio radioattiva furono due chimici specializzati nella manipolazione del Bacillus Anthracis. Il prof. Dan Lilker e l’esimio accademico John Connelly (entrambi gravitati attorno alla primissima incarnazione della band di “Fistful Of Metal”, 1984) unirono le proprie conoscenze scientifiche per fondare questo nuovo progetto di ricerca, al quale presto si unirono altri titolati, come Mike Bogus e Scott Duboys. Fu questo team, adrenalinico e motivatissimo, che dette alle stampe “Back With Vengeance” nel 1985, 7 tracce per appena 23 minuti; risulta chiaro anche dal minutaggio rapportato al numero delle canzoni che i nostri non aspirassero a rubare lo scettro di elucubratori del rock come Rush o Hawkwind. La grana dei fisici nucleari era molto più grossa e spartana, pane al pane, atomo all’atomo, uranio all’uranio. Il primissimo congresso live fu nel New Jersey, nel tardo 1984, forse al grido di “radioactivity is in the air for you and me”. A far data da quell’anno il futuro del nucleare non sarebbe stato più lo stesso. Doboys lascia ma viene prontamente sostituito dal professor Glenn Evans, proveniente da un altro ensemble di chiara fama (T.T. Quick). Anche Bogus cede la cattedra al collega Anthony Bramante. Sono nel frattempo maturate le condizioni per una nuova pubblicazione scientifica, è l’ora di “Live, Suffer, Die”, che consente alla squadra di girare in lungo e largo gli States proponendo alle masse le proprie competenze, con tenacia e abnegazione, in nome del progresso. Il lavoro dei nostri viene talmente apprezzato che fa maturare un contratto con la Combat Records (la quale nello stesso anno finanzia dapprima un Ep propedeutico dal titolo “Brain Death” e poi il primo tomo mastro di ricerca, noto come “Game Over”).
Esistono due versioni di “Live, Suffer, Die”, identiche per sostanza, differenti per forma (ovvero una scaletta disposta diversamente ed un packaging leggermente più curato). La cassettina comunque piombò sui cieli d’America – e, grazie al tape trading, del globo intero – sconquassando certezze e status quo costituiti in ambito metal. 5 tracce, di cui 3 reali ed effettive e due di folclore (ma feroce e pesante), ovvero la title track/intro (una strumentale di 67 secondi) e la beffarda “Hang The Pope” (38 secondi), il cui testo irriverente e provocatorio pigiato a forza in una manciata di secondi fulminanti ha poi fatto storia, marcando la cifra stilistica della band, riverberandosi in realtà parallele come gli Stormtroopers Of Death (sempre con Lilker) e venendo subito riproposto nel primo full length ufficiale dei Nuclear Assault, assieme a “Betrayal” e “Radiaton Sickness”. L’offerta dei newyorkesi è già tutta qui, certo con il passare degli anni si “affinerà” sempre più, mettendo maggiormente a fuoco il connubio tra thrash e hardcore, fino a portare il marchio Nuclear Assault ad essere il più fiammeggiante in ambito thrash metal tra l’88 e l’89. A quell’altezza Connelly e Lilker non avevano sfidanti, i Nuclear Assault di “Survive” e “Handle With Care” erano semplicemente la miglior band su piazza, perlomeno a giudizio del sottoscritto. Il che fa ancora più male pensando che a partire dai ’90 il gruppo perse fortemente la bussola, vedendo scemare la propria ispirazione e non riuscendo più a ripetersi ai medesimi (eccelsi) livelli. Motivo in più per tornare ai prodromi della fissione nucleare e ripercorrere le gesta atomiche al culmine del loro virgulto giovanile, un attimo prima di eternarsi nella Storia dell’atomo con la S maiuscola.