Recensione: Night Hag

Di Roberto Castellucci - 5 Marzo 2022 - 8:00

Volente o nolente, anche nel 2022 mi ritrovo a dover ringraziare il Festival di Sanremo. In questo periodo dell’anno infatti è doveroso intensificare le battute di caccia musicali, utili per scovare nuove proposte capaci di allontanare le orecchie e la memoria dalla nota kermesse. Quest’anno mi sono imbattuto, purtroppo con colpevole ritardo, in un disco potente, ben prodotto e animato da un sommo furore: “Night Hag”, primo full-length degli irlandesi The Risen Dread. L’album, uscito a fine Gennaio 2022, rappresenta un bel debutto per questa band che, nata nel 2018, ha all’attivo un solo EP dal titolo “Delusions”, dato alle stampe nel 2019; il valore del gruppo, oltre che dal solido prodotto discografico che mi trovo tra le mani, viene confermato anche dalle illustri collaborazioni. La tracklist infatti è orgogliosamente impreziosita dalla presenza di due ospiti di tutto rispetto: incontriamo tra i solchi di “Night Hag” il compositore brasiliano Renato Zanuto, accreditato nella title track “The Night Hag”, e addirittura Andreas Kisser dei Sepultura, pronto ad accompagnare con il suono della sua chitarra il brano “White Night”. In aggiunta a queste notevoli premesse, uno degli aspetti che ha subito attirato la mia attenzione, oltre al notevole impatto sonoro prodotto dal quartetto, riguarda indubbiamente i testi delle canzoni. “Night Hag”, come confermato dal cantante Marco Feltrin in un interessantissimo e breve video rintracciabile su YouTube, è un concept album che si prefigge il nobile obiettivo di parlare, in modo sicuramente non banale, delle malattie mentali e di alcuni aspetti che gravitano intorno a questo argomento. Lo stile musicale scelto per veicolare un tema così delicato è un Groove Metal feroce e pesantissimo, generato da un efficace incrocio tra i Testament di fine anni ’90, i recenti Sepultura e le derive Metalcore più violente e maggiormente a contatto con il Death Metal. Spesso infatti ho intercettato sonorità in pieno stile Heaven Shall Burn, tanto per fare un esempio, accompagnate da atmosfere cupe e oppressive che danno perfettamente corpo alle complesse tematiche affrontate dai testi.

Le idee alla base delle lyrics sono talmente interessanti da spingermi a fare una breve carrellata delle tracce, cercando in modo assolutamente amatoriale di spiegarne alcuni contenuti. Il primo brano, “Psychoses”, è un assalto Thrash veloce ed energico, ulteriormente valorizzato dall’ottimo cantante che, con la sua voce arrabbiatissima sempre in bilico tra scream e growl, riesce a spostare più volte l’ago della bilancia verso il Death Metal. “Psychoses” è l’unico brano ad essere caratterizzato da un approccio vicino al Thrash old-school, vettore indubbiamente adatto per parlarci delle ‘terapie’, o forse sarebbe più indicato descriverle come ‘torture’, a cui venivano sottoposti in passato i pazienti psichiatrici con lo strano obiettivo di guarirli dai loro problemi. Nei brani successivi il metronomo rallenta gradualmente, ma non temete: questa scelta non intacca minimamente la pesantezza dell’insieme. Il titolo della seconda canzone, la robusta “Silent Disease” (malattia silenziosa), è un riferimento nemmeno troppo sibillino alla depressione, mentre “Bury Me” parla di una rarissima sindrome, la Sindrome di Cotard, anche definita nei paesi anglosassoni walking corpse syndrome, vale a dire ‘sindrome del cadavere che cammina’. Coloro che ne sono affetti possono essere convinti di non avere organi all’interno dei loro corpi, o di sentirne alcuni mancanti; in qualche caso credono di essere già morti proprio perché questa sarebbe l’unica condizione capace di spiegare la situazione in cui si trovano. Molto evocativo in questo senso il lavoro del basso e della chitarra, bastonati a dovere fino a dar vita a parti talmente pesanti, cadenzate e tenebrose da fermarsi giusto a un paio di passi dallo Slam più malsano. La quarta traccia, intitolata “Obsession”, è incentrata sul più comune disturbo ossessivo/compulsivo, indicato in inglese con l’acronimo OCD; degno di nota l’insistente rullante, impiegato per l’appunto in maniera quasi ossessiva, che richiama alla memoria “Ride”, uno dei brani più potenti del bel “Low” dei maestri Testament. Si prosegue con “Sound Of The Unknown”; la canzone è strutturata in modo tale da interrompere le accelerazioni con tempi cadenzati incisivamente sottolineati dal cantante, che aggiunge qui un registro ulteriore: uno scream meno accentuato ma decisamente più disperato, capace di raccontare non solo la triste condizione delle persone affette da demenza, ma anche quella di chi sta loro vicino.

Passando al sesto brano, “Fallen”, ci si accorge che le coordinate, sia musicali che tematiche, cambiano leggermente. La canzone, già presente in “Delusions”, è costruita sulla base di riff chitarristici e ritmi che rimandano a un Thrash più canonico, rivelando così l’orientamento stilistico del primo EP. Il tema delle malattie mentali inoltre viene toccato solo di striscio, per così dire: il testo parla infatti di due aspetti di una stessa medaglia. Da una parte troviamo le scellerate decisioni, confinanti in certi casi con la follia, prese da leader che mandano in guerra i loro connazionali senza pensarci due volte; dall’altro lato vengono menzionati i problemi che i soldati incontreranno nell’accettare i futuri, immancabili sensi di colpa. Ogni riferimento all’attuale situazione geopolitica europea è puramente casuale…casuale come le probabilità che le persone affette da malattie mentali incontrino ‘professionisti’ che si riveleranno poi nient’altro che ciarlatani: questo è l’argomento affrontato da “Deceiver”, settimo brano del disco e, per lo meno musicalmente, il più anonimo della tracklist. Il calo di tensione apportato da “Deceiver” in ogni caso viene parzialmente assorbito dall’ottava traccia, l’intensa e marziale “White Night”: come accennato in precedenza fa qui la sua comparsa Andreas Kisser, impegnato per l’occasione in un coinvolgente assolo. I testi, come accadeva nella precedente “Fallen”, si spostano, anche se in realtà non di molto, dal tema principale delle malattie mentali: il brano narra dell’agghiacciante omicidio/suicidio di massa dei 909 appartenenti alla setta americana ‘Tempio Del Popolo’, avvenuto nel 1978 in Guyana fra le strutture che componevano il ‘Progetto Agricolo del Tempio Del Popolo’, comunità conosciuta col nome di Jonestown dal cognome del santone fondatore della comune, Jim Jones.

La cronaca nera invade anche la successiva “Coward’s 9”, brano dal sapore molto anni ’90 e contraddistinto da ritmi piuttosto lenti e oppressivi, posto molto coerentemente in nona posizione. Si tratta della seconda canzone ad essere ripescata dal primo EP della band, e come per “White Night” anche in questo caso l’attenzione viene rivolta ad un evento realmente accaduto: la sparatoria in una scuola statale di Suzano, in Brasile, in cui nel 2019 otto persone persero la vita e molte altre rimasero ferite in modo più o meno grave. Fino a questo punto i fatti di cronaca citati sono ampiamente conosciuti e verificabili: con l’aggressivo e roccioso decimo brano, “Lazzaretto”, i The Risen Dread si affidano ad alcune dicerie riguardanti un luogo realmente esistente e situato in Italia. La parola ‘lazzaretto’ che compone il titolo della canzone infatti è una parola italianissima: nel testo si fa riferimento a Poveglia, un’isola della laguna di Venezia, divenuta amaramente famosa per aver accolto alcuni malati di peste nel diciottesimo secolo e, successivamente, per aver ospitato un ospedale geriatrico fino agli anni ‘60 del secolo scorso. Attenzione: geriatrico, non psichiatrico. La leggenda che circonda quest’isolotto e il suo ospedale, accolta dai The Risen Dread per irrobustire la giusta critica verso i supplizi psichiatrici già al centro di “Psychoses”, vuole che in questa struttura si eseguissero innominabili esperimenti sui pazienti. Sembra che queste pratiche abbiano prodotto frotte di fantasmi pronti ad accogliere malamente le troupe televisive e i medium che, nel corso degli ultimi anni, hanno fatto a gara per affibbiare a quest’isola l’appellativo di “luogo maledetto”. Il lettore curioso a cui piacciono molto i fantasmi, ma che ha anche voglia di sentire qualche altra campana, può cliccare qui e leggere un articolo del CICAP in cui si parla dell’isolotto in modo decisamente più equilibrato. Chiusa questa parentesi di doveroso sfatamento di un mito contemporaneo (o debunking, come dicono i più), torniamo al misterioso e pauroso mondo dell’inconscio con l’ultima traccia, “The Night Hag”. Scritta in collaborazione con il compositore brasiliano Renato Zanuto, il brano è una specie di mosca bianca in un disco votato principalmente alla distruzione dei nostri padiglioni auricolari. E’ improprio parlare di una ballad, considerando le tematiche trattate dai testi e l’onnipresente rabbia nella voce di Marco Feltrin, ma il dialogo tra chitarra, tastiere e archi raggiunge livelli di rara intensità. Il testo è incentrato sui problemi del sonno, e in particolare sul fenomeno della paralisi ipnagogica: si tratta di un momento in cui una persona, poco prima di svegliarsi o durante l’addormentamento, si trova ad essere  consapevole e sveglia ma completamente incapace di muoversi e parlare. Eccoci finalmente giunti alla spiegazione del titolo dell’album: la Strega Notturna del titolo, night hag in inglese, altro non è se non una delle molte personificazioni immaginarie della paralisi del sonno, create nel corso dei secoli da molte culture in giro per il globo. Noi, dal canto nostro, possiamo star sicuri che non ci sarà nessuna Strega Notturna a tenerci inchiodati al letto, soprattutto dopo aver ascoltato le batoste sonore generosamente distribuite dai The Risen Dread: eccezion fatta per qualche momento di debolezza nella seconda parte della tracklist, l’assimilazione di “Night Hag” apporterà numerosi benefici alla frequenza cardiaca e ai muscoli della cervicale, tanto cari a noi headbangers…buon ascolto a tutti!

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