Recensione: Nu Delhi

Di Daniele D'Adamo - 1 Maggio 2025 - 0:00
Nu Delhi
Band: Bloodywood
Etichetta: Fearless Records
Genere: Metalcore 
Anno: 2025
Nazione:
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83

Trentatré minuti bastano e avanzano, per i Bloodywood, a rivelarsi come una delle piacevoli sorprese della prima metà del 2025. Trentatré minuti che sono quelli di “Nu Delhi“, azzeccatissimo titolo del loro terzo full-length in carriera, come si potrà desumere più sotto.

Perché sorpresa? Perché la loro miscela di nu-metal e folk indiano, condita a piene mani dall’elettronica, si rivela oltreché originale, terribilmente trascinante tanto che è impossibile non battere il piede durante l’ascolto del platter.

I Nostri, nella formazione ufficiale, sono in tre: Jayant Bhadula e Raoul Kerr alla voce, più Karan Katiyar alla chitarra e flauto. Con Kerr – bravissimo sterminatore – che intona le proprie linee vocali, pulite, in stile hip-hop/rapper (sic!), mentre a Bhadula è lasciato il compito di ruggire in growling. A essi si associano, com’è ovvio che sia, il bassista Roshan Roy, il batterista Vishesh Singh e Sarthak Pahwa, suonatore di dhol (strumento musicale a percussione dell’India del Nord). Un insieme esplosivo, si potrebbe anche dire devastante in sede live ma che sa il fatto suo anche in sala di registrazione.

Il sound, infatti, è molto potente, robusto, massiccio, prodotto in modo da far risaltare al massimo il dinamismo incontrollato della band mentre lavora sul suo incendiario materiale. In esso, il sound, si possono ben udire, qua e là, echi di Slipknot (“Dhadak“), che non indicano una scopiazzatura ma solo un dettaglio stilistico tipico di quello che, oggi, si può anche definire metalcore – ma anche modern metal, da sempre indicato come parente più prossimo al tanto vituperato nu-metal. Definizioni a latere, i Bloodywood interpretano le loro idee musicali con foga, passione, massimo impegno e, non ultimo, una dose di talento mica da ridere.

Talento profuso evidentemente nella creazione di uno stile assai personale, riconoscibile fra mille, il che non è proprio da tutti, soprattutto in questi tempi di inflazione metallica a tutti i livelli specificamente in quello estremo. Estremo? Sì, giacché quando spinge sull’acceleratore, il combo di New Dehli non fa prigionieri (“Daggebaaz“), arrivando addirittura a calpestare la soglia dei blast-beats. In mezzo a tutto questo fragore c’è da sottolineare che non viene mai persa la strada maestra. Gli ingredienti del Bloodywood-sound sono davvero tanti, da gestire contemporaneamente senza scivolare nel caos. E ciò dimostra, appunto, che il concetto musicale che gira e rigira nelle teste degli attori è chiaro e limpido, in modo da iterarlo in tutte le canzoni del disco.

Le quali, facendo il paio con lo stile, mostrano un altissimo livello qualitativo anche nel songwriting. Ci sono stati singoli, in passato, che sono diventati veri e propri tormentoni orientali ma non solo, come quelli estratti da “Rakshak” (2022), come “Aaj” e “Dana Dan”. In “Nu Delhi” si alza tuttavia l’asticella in virtù di brani dai chorus devastanti, che tagliano a pezzi i brani stessi, rendendoli sia clamorosamente orecchiabili, sia granitici nelle strofe. La classica alternanza fra armonia e chitarra a mò di segaossa (“Nu Delhi“), insomma, che però in questo caso assume un valore notevole grazie ai meravigliosi ritornelli che infarciscono l’LP. Come “Kismat“, che dopo un incipit tipo mantra, tira fuori dal cilindro un refrain gigantesco, da strappare la mente per trasportarla nel mondo dei sogni alla velocità della luce. Un qualcosa che raramente si è sentito prima, per farla breve. E che dire della spettacolare “Bekhauf“, che vede un riuscitissimo apporto delle Babymetal, per una traccia dirompente e iper-melodica?

Altro da dire? No. Perché a questo punto si deve prendere “Nu Delhi” e farlo girare a lungo nei vari dispositivi di lettura, che non arriverà mai la noia. A parere di chi scrive, infatti, i Bloodywood spezzano senza paura le catene del conformismo metal per lanciarsi in territori ove nessuno è ancora andato. Dando vita a una realtà giova ripetersi, unica nel suo (splendido) genere; rammentando ancora una volta l’energia travolgente di Raoul Kerr, vero e proprio quid in più nell’economia generale dell’opera.

Daniele “dani66” D’Adamo

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