Recensione: Once in a Blue Moon
Il debutto degli svedesi Civil Daze arriva per Pride & Joy Music e si colloca in pieno territorio melodic rock/AOR, con forti rimandi agli anni 70/80 ed un taglio radio friendly piuttosto marcato.
La band, originaria dell’Upplands Väsby – terra che ha già regalato alla storia nomi come Europe e H.e.a.t – non fa nulla per nascondere il debito verso il genere di riferimento. L’ossatura del disco è, in effetti, un alternarsi di riff rotondi e melodie in controluce, in cui i ritornelli puntano sempre alla presa immediata.
La formazione è molto classica nella struttura. Due chitarre – Mikael Danielsson e Tony Lindh – sezione ritmica basso e batteria – Hasse Hagman, Glenn Johnsson – e la voce di Helena Sommerdahl a porsi quale vero elemento caratterizzante. Timbro caldo, leggermente graffiato, che la avvicina alle migliori frontwoman di area Saraya/Femme Fatale senza giocare la carta dell’istrionismo a tutti i costi. Le chitarre lavorano di fino, tra compattezza e un taglio quasi bluesy, mentre la sezione ritmica tiene sempre il baricentro un passo avanti. Quello che ne deriva è uno stile caldo, più da club che da grande arena.
La tracklist scorre senza veri riempitivi: “Paradise” e “The Right Kind Of Lovin’” mostrano il lato più radio friendly. “Got To Go” allunga il minutaggio giocando su dinamiche e crescendo. La conclusiva “Givin’ It All” chiude il cerchio riprendendo tutti i tratti distintivi dell’album. Non c’è la ballad strappalacrime di rito, scelta che rende il flusso più compatto ma toglie un possibile picco emotivo a chi cerca il singolone da accendino acceso. Brani come “Face Down In The Dirt” e “Revolution” mostrano poi la band al meglio, con equilibrio tra melodia, grinta e un respiro rock blues che dona dinamica al disco. Anche “Top Of The World” funziona bene come biglietto da visita, grazie a un refrain aperto e facilmente memorizzabile.
Il suono, pulito ma non plastificato, restituisce bene l’idea di un lavoro “viscerale” pensato per il volume alto, anche se a volte la patina levigata delle produzioni Pride & Joy smussa un po’ troppo gli spigoli. Manca tuttavia il brano davvero memorabile che faccia fare il salto di qualità, ma come livello di “entrata” il primo album dei Civil Daze si dimostra un esordio solido, credibile e capace di parlare tanto ai nostalgici del settore quanto a chi scopre oggi questo tipo di hard rock melodico.
“Once in a blue Moon” è un debutto che non punta a reinventare il melodic rock, ma a ribadirne l’eterna appetibilità con mestiere, gusto per il dettaglio e qualche furbo ammiccamento radiofonico.
Il rovescio della medaglia è una certa prevedibilità: chi mastica da anni hard rock di questo tipo riconoscerà immediatamente molte soluzioni, dagli incastri voce/chitarre fino alla costruzione dei bridge, con poche sorprese lungo il percorso. Qui e lì si percepisce che il focus è stato più sulla cura del mestiere che sulla ricerca di un’identità davvero spiccata, pur senza mai scadere nel mero compitino.
Per chi vive di AOR scandinavo insomma, uno di quei dischi che non cambiano la vita, ma che finiscono spesso nello stereo quando si cercano suoni familiari senza troppi pensieri. Non è un album rivoluzionario, che però centra l’obiettivo di offrire quaranta minuti abbondanti di melodia elettrica, con qualche brano sopra la media.
