Recensione: Shadow Work

Di Daniele D'Adamo - 31 Ottobre 2025 - 12:00
Shadow Work
79

A sei anni di distanza da “Purgatory”, i Despised Icon celebrano l’uscita del settimo full-length in carriera, “Shadow Work“. Se si ragiona sul fatto che la loro nascita risalga al 2002, non sono poi molti i botti sparati dalla corazzata canadese. Dal che si deduce, almeno nel loro caso, a una particolare attenzione per tutto ciò che esce dalla loro tana e non a una pigrizia congenita. Se poi si considera che la formazione a sei è immutata dal 2014, il quadro della situazione diventa chiaro.

Come? Semplice: indicandoli come una delle migliori band di deathcore che ci siano al Mondo. Se non la migliore. Del resto, la loro tecnica strumentale raggiunge livelli stratosferici, che consente a essi di mettere con naturalezza in musica tutto ciò che passa per il cervello dei singoli membri. Una professionalità pressoché totale, che investe ogni fase produttiva di un LP. A partire dalle prime idee sino alle rifiniture finali. Strepitose, bisogna dire, grazie anche al supporto di una label eccezionale come la Nuclear Blast Records.

Il suono di “Shadow Work” non è perfetto. È… perfettissimo. Difficile trovare qualcosa di simile, in pieno 2025. E questo malgrado la proposta musicale sia assolutamente annichilente, devastante, terremotante; nondimeno pienamente decifrabile in ogni singola nota. Come una gigantesca scudisciata tirata a tutta forza sulla schiena, il combo quebecchese aggredisce l’uditorio con un’intensità che, oggi, è ben difficile da superare.

Le chitarre, plasmate anzi saldate ai pattern della batteria e agli sberloni del basso, formano un muro di suono spaventoso, la cui dimensione tridimensionale non è data da osservare (“Shadow Work“). Parimenti, quasi nulla di simile, oggi. I riff, nella loro esecuzione spettacolare e senza difetti, sfondano la cassa toracica per via della loro accordatura ribassata e dell’utilizzo al massimo della distorsione, accoppiata alla tecnica del palm-muting. Una vera esplosione nucleare che lascia alle sue spalle il successivo, tetro e vuoto inverno nucleare che, metaforicamente, s’allaccia all’umore cupo e tenebroso del platter (“In Memoriam“).

Alex Grind, nome omen, trincia le sue bacchette rivoltando le sue pelli come guanti alla ricerca dei più pesanti e granitici stop’n’go, talmente rallentati da fermare il respiro (“Reaper“), per poi divergere rapidamente verso blast-beats da incalcolabili BPM. In tali frangenti, cui partecipano i gelidi assoli delle sei/sette corde, s’innesca una risposta cerebrale di tipo lisergico in cui sono travolte tutte le manifestazioni cognitive usuali. Non occorre nessuna sostanza psicotropa, insomma, per scivolare nei meandri dell’allucinazione (“Death of An Artist“).

Eppoi ci sono Alex Erian e Steve Marois, affiatati cantanti che intersecano continuamente le proprie linee vocali, prevalentemente orientate verso harsh vocals che spruzzano sangue dalla gola, per quanto siano energiche. Non manca, e non poteva mancare, qualche suinata qua e là, giusto per ribadire che, nello stile del sestetto di Montréal, sussiste qualche venatura di grindcore (“ContreCoeur“). Se, ancora, si rileva che partecipano come ugole ospiti gente come Matthew Honeycutt (Kublai Khan TX), Scott Ian Lewis (Carnifex) e Tom Barber (Chelsea Grin, Darko US), si può allora immaginare con più precisione cosa significhi, in termini di varietà e profondità di toni, la sezione vocale dei Nostri.

In cima a tutto questo Everest di musica s’inerpicano le canzoni. A un ascolto distratto potrebbero apparire simili fra loro. Il che è vero, ingannevolmente. Ma è anche vero che la loro anima, il loro cuore, la loro passione, emerge solo e soltanto e si ci sofferma su “Shadow Work” per parecchie ore. Cercando, con una buona dose di concentrazione, di cogliere le innumerevoli variabili in gioco che rendono, invece, il disco parecchio interessante da mandare a memoria, sebbene quest’ultima sia un’operazione per nulla semplice e immediata.

Al momento, i Despised Icon identificano e dettano le coordinate natie del deathcore puro assieme a qualche altra rarissima realtà che girovaga per il metal estremo. “Shadow Work” ne è la rappresentazione invisibile che, per quanto sopra, non ha poi così tanti margini di manovra da un copione disegnato in ogni minimo dettaglio, togliendo un po’ di sorpresa durante l’assimilazione dei brani. Un minuscolo neo che poco o nulla toglie al valore più che notevole dell’album.

Daniele “dani66” D’Adamo

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