Recensione: Smith – Kotzen

Di Vito Ruta - 9 Maggio 2021 - 0:01
Smith – Kotzen
72

Adrian Smith, conosciuto anche dai muri come storico chitarrista degli Iron Maiden e Richie Kotzen, con alle spalle militanze nei Winery Dogs, nei Poison e nei Mr. Big, nonché una produzione da solista davvero considerevole, hanno dato vita ad un loro progetto suggellato da un omonimo album, intitolato, con grande dispendio di fantasia, “Smith & Kotzen”.

L’album è frutto dell’amicizia tra i due, rinsaldata dalla condivisione dell’amore per il rock classico e il blues rock.
Considerando il calibro dei protagonisti mi attendevo, anche a livello compositivo, un disco da deflagrazione nucleare, ma, anche a causa della produzione che gli stessi hanno voluto curare da soli (Kotzen, peraltro, ha suonato il basso in tutto l’album e la batteria in molti brani, tranne in caso di qualche ospitata illustre), il risultato finale equivale ai botti di capodanno, nonostante la presenza di alcuni momenti ispirati.
I due offrono prestazioni vocali di livello e si producono naturalmente in una serie di duelli chitarristici, (spesso vinti dal più tecnico Kotzen, ma quando Smith attinge al proprio gusto innato la sfida si fa ardua) che hanno avuto il buon senso di non indirizzare a scoprire chi ce l’ha più grosso, ma di giocare in chiave di complementarità.

L’apertura del disco è affidata al riff heavy di “Taking my changes” che, ben presto, si rivela un pezzo hard rock venato di soul con un chorus di facile presa e tanto di prima schermaglia chitarristica. Niente di che.
Running” fa un po’ meglio con un riff hard rock spezzato e nervoso. Il ritmo si fa incalzante e crea quel minimo di tensione che risultava assente nella prima traccia. Stessa impostazione catchy per il refrain che sembra sconfinare in atmosfere AOR. Assoli al servizio della traccia.
Scars”, “Some People” e “Glory Road”, il cui riff prende tanto da quello di “Come Together” dei Beatles, è una triade che ha in comune chorus sempre molto orecchiabili, appena più ricercati rispetto ai precedenti episodi e costituisce, non solo per la posizione nell’ordine dei brani, il cuore dell’album, esaltando la passione nutrita dai nostri per il blues. Se nei primi due round Kotzen ha prevalso, Smith si riscatta inanellando, uno di seguito all’altro, tre assoli di gran gusto.
E’ tempo di ospitata. Dietro alla batteria si sistema il compagno di band di Smith, Nicko Mcbrain per “Solar Fire”, pezzo hard rock che introduce, alla buon’ora, una maggiore dinamica nei suoni (fortunatamente mantenuta per la restante parte dell’album).

Il pezzo più lungo del set intitolato “You don’t know me”, che vede Tal Bergman on the drums (presente anche nelle successive “I Wanna Stay” e “Till Tomorrow”) e una seconda parte interamente dedicata allo scontro chitarristico, risulta ridimensionato da un chorus troppo scontato, del quale la traccia non avrebbe sentito la mancanza in virtù di un accattivante prechorus alla Chris Cornell.
Efficace il fraseggio che regge praticamente da solo la quasi ballad “I Wanna Stay” ma, a parte l’ennesimo confronto tra i due, non vi è molto d’altro.
Tocca a “Til Tomorrow” il compito di concludere l’album che, richiamando nell’interpretazione ancora una volta il compianto Christopher John Boyle di “Arms Around Your Love”, regala un momento di struggente nostalgia, per la di lui dipartita, prima della battaglia chitarristica finale.

L’album, che richiama l’attenzione di tutti gli appassionati di chitarra, pur non essendo quel miracolo a cui tanti hanno urlato, risulta tutto sommato gradevole e conferma il talento che, con le dovute differenze di tecnica e stile, accomuna i due guitar heroes, i quali (va ammesso), questa volta, complice l’aria di rilassata jam session tra intimi, non hanno spaccato.

 

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