Recensione: Starlight and Ash

Di Roberto Gelmi - 15 Agosto 2022 - 12:00

L’artwork di Eliran Kantor  tutto fa supporre tranne il cambio di sound operato dagli Oceans of Slumber, band texana che da diversi anni sta lasciando il segno con un proprio trademark potente e oscuro. La band capitanata dalla grintosa Cammie Gilbert questa volta ha deciso di non riproporre il metal oscuro e potente di stampo opethiano che ha caratterizzato i precedenti album e puntare su un diverso approccio musicale, ricco di pathos e atmosfere stoner, con poche ritmiche granitiche e spazio ai momenti unplugged. Il risultato è qualcosa che in pochi si sarebbero aspettati…

I pezzi in scaletta si aggirano attorno ai 4/5 minuti di durata, il disco non è affatto lungo, ma comunque intenso. “The Waters rising” ci proietta subito nel nuovo paesaggio sonoro dipinto dalla band americana. Ritroviamo i testi venati di poesia gotica – «I’m drowning in your sorrow / In the belly of your cravings / In the darkness of your despair» – ma la novità è il trattamento riservato al comparto strumentale. A svettare, infatti, è in modo indiscusso la voce pulita e potente di Cammie Gilbert, il metal viene dopo ed è sapientemente depotenziato. Prendere o lasciare.

È sorniona e crepuscolare anche “Hearts of Stone”, la voce è tutto ed è lei a cullarci e sferzarci nei minuti che compongono il pezzo, che non spicca per originalità ma continua il viaggio di Starlight and Ashes in direzione di “The Lighthouse”, prima song a svelare senza mezzi termini l’intento del platter. Siamo di fronte a musica che ha ormai poco o nulla a spartire con il metal, semmai richiama sonorità blues/soul. Gli arrangiamenti sono pregevoli e oscuramente soavi, si respira una raffinata desolazione e i testi donano un tocco di ricercatezza: «The moon behind the clouds of nights embrace / Our beacon is the flame that cuts the haze  / This hearth of stone and might».

Ora che sapete cosa avete di fronte, proseguire l’ascolto dipende da voi: se eravate legati al sound più death-oriented degli Ocean of Slumer probabilmente lascerete perdere, chi invece apprezzava il loro lato prog andrà avanti… Oppure no, tutti continueranno l’ascolto perché ammaliati dalla voce della Gilbert. Preparatevi a momenti da pelle d’oca, come quelli che regala la seconda parte di “Red Forest Roads”, con un’improvvisa scarica adrenalinica di doppia cassa e sussulti metal che per alcuni istanti donano epicità a un brano altrimenti innocuo. Anche il tasso emotivo di “The Hanging Tree” non è innocuo, trattasi di ballad unplugged da manuale, che conferma la versatilità vocale di Cammie. Una potenziale pop song a tutti gli effetti.

I cinque minuti di “Salvation” sono più abrasivi e languidi (il moniker della band resta una dichiarazione d’intenti): a ogni strofa sembra sia pronto dietro l’angolo un’improvvisa accelerazione dei bpm, che invece non ha luogo, se non negli ultimi 60 secondi, con alcuni accordi abrasivi e un coro vagamente gotico. Questo è Starlight and Ash, lunghe attese che vengono frustrate, o, per così dire, trovano la loro apoteosi nelle linee vocali di Cammie. Stesso copione in “Star Altar”, pezzo intriso di dolore sublimato con sapienza. Siamo su lidi doom/stoner, filtra pochissima luce nell’ordito sonoro della band texana. Un inno oscuro per tempi oscuri come quelli che stiamo vivendo nel nuovo millennio.

Prima del trittico finale, è bene godersi gli attimi di elegia sostanziati dalle note di pianoforte nell’intermezzo “The Spring of ’21”. La scelta d’inserire un brano di questo tipo è coraggiosa, così avevano fatto anche gli Opeth di Orchid con il brano “Silhoutte” (a dirla tutta, molto più aggressivo in fatto di dinamiche). In “Just a Day” i ritmi sono dilatati ma c’è più spazio per le chitarre elettriche, del resto è un altro pezzo ancipite con dinamiche delicate all’avvio mentre nel finale si preme un po’ sull’acceleratore. Nel mezzo attraversiamo uno spazio abitato da cadenze evocative e un’aria ipersatura, spezzata solo dai glissati di Cammie. L’album si chiude con due composizioni interessanti. “House of the Rising Sun” ci porta in una New Orleans d’altri tempi, che prende forma sfruttando ottimi inserti di violino e violoncello. Nessuna distorsione, nessuna chitarra, si respira magia allo stato puro. “The Shipbuilder’s Son” chiude il cerchio con l’ennesima tonalità in minore, aspettiamo l’ultima esplosione metal e siamo in parte accontentati ma non prima di alcune (ormai immancabili) false partenze.

Questo il disco, a voi scoprire il fil rouge che unisce i pezzi in scaletta, tutto ruota intorno a una fantomatica città… Ora le ultime considerazioni. Come si resta dopo l’ascolto di Starlight and Ash? Superato il senso di disorientamento, possiamo dire che vorremmo l’album durasse di più, ma 50 minuti di musica che trasuda pathos possono bastare, perché esagerare come fatto in passato dai texani? Molto probabilmente Starlight and Ash verrà eletto come uno degli album che hanno più stupito in questo 2022, non perdetelo.

 

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