Recensione: Tales of Fire and Ice

Di Stefano Usardi - 22 Novembre 2019 - 0:03
Tales of Fire and Ice
Etichetta: AFM Records
Genere: Power 
Anno: 2019
Nazione:
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73

E siamo a sette! Ebbene sì, i polacchi Crystal Viper raggiungono, con “Tales of Fire and Ice”, quota sette album da studio, più un live e singoli vari. Non male, dato che il gruppo nasce nel 2003 e l’esordio discografico è datato 2007. Certo, come voi mi insegnate non è la quantità degli album che dovrebbe contare ma la loro qualità, al che vi rispondo che anche in questo caso i nostri si difendono bene: il loro heavy metal di stampo tradizionale tutto riff, borchie e pellami ha spesso riecheggiato quanto fatto dalla sempiterna Doro Pesch grazie a una resa aggressiva, sfacciata e meravigliosamente demodé; non da ultimo, la bella vocalist Marta gioca spesso con toni grintosi e arroganti piuttosto che con i soliti gorgheggi che in genere si associano (spesso erroneamente) al cosiddetto female fronted metal. Oggi, però, qualcosa cambia: con “Tales of Fire and Ice” i Crystal Viper iniettano nella loro ricetta pesanti dosi di melodia che, se da un lato impenna il tasso di enfasi declamatoria dei pezzi, dall’altro ne alleggerisce la portanza e il tasso di bellicosità, screziandola di elementi più vicini a un certo modo di intendere il power. Nonostante i polacchi continuino a snocciolare riff granitici e power chord ad ogni piè sospinto, con quest’ultima fatica sembra che la ricerca di immediatezza pretenda una maggiore attenzione rispetto al passato, in cui si calcava più la mano con la semplice aggressività. I nostri restano sempre legati al caro vecchio metallo classico, ma è innegabile che stavolta non si siano fatti mai mancare l’occasione per infarcire i loro pezzi con una melodia accattivante o una frustata di trionfalismo spinto, ammorbidendo anche il comparto vocale e sostenendolo con una sezione ritmica pulsante e sempre in evidenza, alla ricerca più o meno costante di inni facilmente memorizzabili.

Che qualcosa sia cambiato lo si capisce da subito: dopo un’intro francamente superflua, infatti, arriva “Still Alive”, in cui le differenze col recente passato saltano all’orecchio. La canzone è una classica cavalcata che a una base di riff caciaroni e ritmi quadratissimi affianca melodie solari e tastieroni trionfali, mentre Marta si scalda le corde vocali con toni anthemici che incontreremo spesso, ma nonostante le buone intenzioni siamo comunque lontani anni luce da una “The Witch is Back“, la furente opener del precedente album. “Crystal Sphere” si apre più o meno nello stesso modo, assecondando il lavoro teso delle chitarre con una ritmica abbastanza lineare e melodie immediate che, di colpo, rompono gli argini del trionfalismo durante il ponte per poi esplodere nella solarità (forse un po’ scontata) del ritornello. La canzone procede così, saltellando tra tensione ed enfasi, ma senza affondare mai davvero il colpo. Si passa ora alla breve e smargiassa “Bright Lights”, frustata heavy tutta borchie e power chord in cui, di tanto in tanto, si insinua quello svolazzo stradaiolo che le dona il suo tiro così disinvolto, smorzandone al contempo un ritornello un po’ troppo orientato alla riproposizione dal vivo. La solennità sembra spadroneggiare nella successiva “Neverending Fire”, una canzone lenta e scandita in cui melodie anthemiche e piglio ieratico permeano ogni secondo. Ci pensa la sezione centrale, tra l’assolo e il rallentamento atmosferico più carico di pathos, a scompaginare un po’ le carte prima di tornare alla lenta avanzata che ha caratterizzato la prima metà della traccia e chiudere così la prima metà dell’album con una certa enfasi. Superato senza danni l’intermezzo strumentale che funge da spartiacque tra le due parti di questo “Tales of Fire and Ice” si passa ora ad “Under Ice”, marcia ritmatissima che punta sulla cafonaggine anthemica: batteria bene in evidenza, voce squillante e chitarre dosate e discretamente coatte sono i tratti salienti della traccia, che gioca con melodie solari ed immediate e sfacciataggine latente. Bella anche l’incursione solista, che apre al classico momento live in cui il gruppo prende la rincorsa in vista del finale. Non male, ma è con “One Question” che i nostri tornano a macinare riff più aggressivi e a caricarsi del giusto piglio battagliero. La traccia prende subito la giusta direzione, screziando un incedere drittissimo col trionfalismo del ritornello, mentre Marta mostra finalmente i denti con un tono da vera metal queen. La sfacciataggine che tanto profuma di anni ’80 prosegue con la successiva “Tomorrow Never Comes (Dyaltov Pass)”, che snocciola in meno di quattro minuti un tasso di insolenza decisamente rinfrescante: ritmiche agguerrite e chitarre graffianti sposano meravigliosamente melodie arcigne, accattivanti e dotate della giusta strafottenza. Dopo questa corroborante iniezione di steroidi musicali i nostri abbassano i toni per cedere il posto alla conclusiva “Tears of Arizona”, power ballatona delicata che riecheggia molto i Nightwish del cambio di millennio. Melodie leggiadre e un incedere delicato si distendono placidi nel corso del minutaggio, guadagnando pathos man mano che la traccia procede e inframmezzando il tutto con un assolo breve ma abbastanza incisivo. La canzone chiude l’album con una nota forse troppo morbida, ma i polacchi hanno in serbo (niente battutine, grazie…) un’ultima sorpresa. Nella fattispecie una bonus track, che varia in base al supporto che si sta ascoltando. Quella del cd si intitola “Dream Warriors”, cover del brano dei Dokken datato 1987 e inserito nella colonna sonora del terzo capitolo della serie “Nightmare”. Niente da dire, anche in questo caso i nostri se la cavano più che bene, fondendo l’inquietudine della canzone originale con la voce piena e sfacciata di Marta.

Tirando le somme, “Tales of Fire and Ice” si rivela comunque un buon album: sicuramente meno arcigno dei suoi predecessori, ma sicuramente degno di essere assaporato dagli amanti di certe sonorità grazie a una materia prima piuttosto energica e qualche bel picco. Certo, i fan più vetero-testamentari del combo potrebbero vedere l’ammorbidimento della proposta dei polacchi con un certo fastidio (che, volendo, posso anche condividere), ma a conti fatti l’album risulta solido, ben strutturato e anche decisamente godibile. E alla fine è questo ciò che conta.

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