Recensione: The Four Seasons

Di Roberto Gelmi - 27 Luglio 2016 - 10:00
The Four Seasons
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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80

“This album is dedicated to the immense genius of Antonio Vivaldi and to all the artists on this album who created a new form to his immortal art. It is dedicated to all the artists in the world who love music in all its breadth and expressions. It is dedicated to Mother Music who creates moments of pure magic on earth and who makes us taste moments of eternity in life.”

Questo album è dedicato all’immenso genio di Antonio Vivaldi e a tutti gli artisti presenti su questo album, che hanno creato una nuova rilettura della sua arte immortale. È dedicato a tutti gli artisti del mondo che amano la musica in tutta la sua vastità e forme espressive. È dedicato alla Madre Musica che crea momenti di pura magia sulla Terra e che ci permette di assaporare momenti di eternità in vita.

(dal booklet dell’album)

 

Breve premessa
La presente recensione abbonda di riferimenti a musicisti e band più e meno noti (per la lista completa rimando al sito ufficiale del progetto). Si consiglia la lettura a chi vuole scoprire nuovi artisti attivi nella scena metal e non solo.

 

Senza dubbio Antonio Vivaldi, detto anche il “prete rosso” (ma abbandonò la carriera ecclesiastica per problemi di salute), è tra i compositori più conosciuti al mondo e forse il violinista più talentuoso del Settecento insieme a Giuseppe Tartini, (così come Ignaz von Biber per il XVII secolo e Paganini per il XIX). E dire che morì povero a Vienna all’inizio della guerra di Successione austriaca e che non abbiamo ancora una sua biografia esauriente. Sappiamo, però, che molti compositori si sono rifatti a lui: Johann Sebastian Bach trascrisse alcuni suoi concerti, Haydn compose un oratorio intitolato Le stagioni nel 1800 e Beethoven nella Sesta ne ha ripreso alcuni elementi descrittivi. Poi un periodo di oblio, fino alla scoperta e consacrazione nel Novecento.
Chi dice Vivaldi dice Quattro stagioni, i primi quattro concerti grossi di violino contenuti nella raccolta Il cimento dell’armonia e dell’inventione perché, ammettiamolo, chi ha mai ascoltato almeno una delle cento opere da lui musicate, oppure le sue composizioni sacre? (Un peccato, almeno il mottetto Nulla in mundo pax sincera è un capolavoro). Fu un autore prolifico, in totale quasi 600 composizioni, ma all’epoca i ritmi non erano meno frenetici di quelli odierni (oggi, semmai, manca proprio il tempo per ascoltare buona musica).  
Chi non ama Vivaldi – c’è sempre qualche detrattore, anche illustre (chi ha detto Stravinsky?) – sostiene che alla fin fine ha sempre riscritto lo stesso concerto, ma il mito delle Quattro Stagioni resta intoccabile. L’elegante gioco di corrispondenze e simmetrie (non è improprio pensare al cosiddetto esprit de geométrie preilluminista), l’uso di una struttura a mosaico aliena da rigidità meccaniche e la tensione tra spontaneità creativa e logica formale (basti ricordare il titolo dell’Opera 3, o Estro armonico) ha reso questi concerti per violino immortali.
Uli Roth in passato (era il 2003) ha saputo reinterpretare la magia di Vivaldi con una levità unica, bissarne la classe era cosa ardua, le dinamiche ricche di sfumature difficili da riproporre. Ecco allora che il Vivaldi Metal Project, nato dalla mente del tastierista italiano Mistheria (Rob Rock, Bruce Dickinson, Roy Z, Artlantica), punta tutto su un infinito parterre di ospiti internazionali e su un sound più aggressivo, che se snatura il dettato vivaldiano, lo fa con cognizione di causa, partendo dalla musica d’arte per proiettarla in una dimensione altra. Ambizione e creatività, una camapgna di fund raising, due anni di lavoro intenso, 130 cantanti e musicisti coinvolti (forse un record), per 14 brani, i dodici movimenti vivaldiani e due inediti. L’album non conosce cali qualitativi, è coeso nonostante la line-up sconfinata, insomma siamo di fronte a un pregevole album power metal, che riprende alcuni momenti topici della musica creata dal prete rosso.

L’opener è un inedito dal tiro diretto e un sapore sinfonico. Il refrain ricorda “Vain glory opera” degli Edguy, le ritmiche di Simone Mularoni (DGM) sono chirurgiche, ma si respira anche aria finnica (non solo perché Rolf Pilve è alle pelli); il resto lo fa Rob (e Liza) Rock, inclusa la prima sontuosa strofa: «Life, spirit, hope, inception / Pain, bearing, bliss, conception / Breathe, waking, feed, infusion / Live, loving, learn, confusion». Peccato solo per l’avvio al fulmicotone, con un synth troppo acido, si poteva pensare a un intro canonico ricco d’atmosfera. E Vivaldi? Tranquilli, troviamo nella seguente “The Illusion Of Eternity” l’incipit della Primavera, con un drumwork più che azzeccato a scandire il celebre avvio cadenzato. I testi di D. R. Docker (chiamato in causa come paroliere) si rifanno al sonetto Giunt’ è la Primavera e festosetti, s’inneggia bucolicamente alla Natura, contro i “Satanic Mills” di William Blake. Nel corso dell’album, tuttavia, i rimandi ai testi originali sono rari: poco male, tuttavia, non hanno niente di così poetico nella loro stereotipia (il programma del ciclo descrittivo sembra perfino aver tratto spunto da due poemetti di John Milton).  Le voci femminili chiamate in causa riescono a interpretare strofe metricamente impegnative e gli arrangiamenti orchestrali di Michał Mierzejewski (Symphonyc Theater of Dreams) sono calzanti. Al centro del brano l’unisono chitarra-tastiera accontenterà tutti i fan del mero virtuosismo.
L’avvio strumentale di “Vita” regala emozioni, con il tocco vellutato di Tomas Varnagiris alla chitarra elettrica, poi tutto si anima con una strofa in italiano dal sapore rhapsodiano (questo uno dei punti cardinali del disco). Chris Caffery sciorina un assolo memorabile, ma è l’intera traccia a ricordare a tratti i Savatage (per linee vocali) e Malmsteen (idolo di Mistheria). Convince un po’ meno “Euphoria”, con intrecci vocali pseudo-operistici, ma con l’ottimo drumwork di Atma Anur e testi incentrati sulla metamorfosi metaforica da crisalide a farfalla. Da segnalare anche la seconda parte strumentale, divertente e divertita, tra i momenti più prog. e tecnici dell’album. Finita la Primavera, si passa in sol minore, e dopo un intro emozionante di pianoforte, “Sun of God” incede con la voce di Edu Falaschi (ex-Angra) e Göran Nyström. I testi ricordano “Powerslave” dei Maiden, il keytar di Mistheria emula le gesta di Jordan Rudess. I leitmotive vivaldiani restano in sottotraccia, ma sempre presenti. Raffinato l’avvio di “Immortal Soul”, la voce fatata di Elina Laivera dialogare con quella di Chitral Somapala (una versione minore di Hansi Kürsch); con Titta Tani alla batteria, e Alberto Rigoni al basso è impossibile fallire il bersaglio. Una convincente ballata d’odio e d’amore in definitiva.
Il Presto dell’Estate, a detta di chi scrive, è il momento migliore delle Quattro stagioni. E guarda caso troviamo una line-up stellare: il sommo Vitalij Kuprij alla tastiera, Oliver Holzwarth al basso, Dani Löble (Helloween) alle pelli e Marco Sfogli (James LaBrie) alla chitarra, scusate se è poco! Peccato per i testi, ridotti all’osso e con qualche parola latina buttata lì senza pretese. Celeberrimo anche l’incipit di “The age of dreams”, che dà avvio all’Autunno, tra i più conosciuti al mondo (in Giappone fa furore). La versione rivisitata diventa un pezzo dal buon groove, con Mark Boals al microfono e l’eccellente coppia ritmica LepondMacaluso. I testi sono di chiara matrice dockeriana, una riflessione sul tempo che passa, la vita che scorre, forse con un rimando dantesco («I’m about to hit the midlife point»). Non mancano assoli di violino, chitarra e tastiera. Un tipico esempio di metal barocco, tra Artension e Ring of Fire.

Alchemy” (brano più lungo in scaletta) rilegge l’Adagio molto dell’Autunno con una prima parte strumentale che ricorda gli Ayreon, e una seconda più gotica. Aleggia lo spettro di Malmsteen, l’espressività della 6-corde è portata ai massimi livelli; i testi rimandano alla numerologia della sezione aurea di Fibonacci. “Stige” è una breve strumentale (se si eccettuano quattro pentametri di cui tre in rima baciata), con John Macaulso, Anna Portalupi al basso e Victor Smolski (ex-Rage) a dar libero sfogo al suo estro chitarristico; anche Pawel Penksa sfodera assoli notevoli di tastiera, un ottimo pezzo virtuosistico. Per il primo movimento dell’Inverno, “The Meaning of life”, troviamo la voce di Fabio Lione (difficile ormai tener il conto delle sua apparizioni) a duettare con Brittney Slayes. I testi vorrebbero essere filosofici, ma si rivelano un filo stucchevoli, la musica di Vivaldi come quella di Mozart non è tragica… Le parti vocali, inoltre, sono troppo esasperate, Lione andrebbe valorizzato in altro modo. Trascinante la successiva “The final hour”, tre minuti di power metal impreziosito dal drumwork di Mirkko de Maio e la voce di Caterina Nixx (Chaos Magic). Tra i momenti più solari del disco, divertimento puro.
Grande madre” strizza l’occhio alla “nuova maniera metal” di Turilli, con una spruzzata di theatrical rock. Mark Cross alle pelli, Fabio d’Amore al basso, Pier Gonella alla chitarra, altri ospiti sopraffini.
Le danze si chiudono con il secondo inedito, “Doomsday”. L’avvio ricorda i tempi d’oro dei Rhapsody, quelli di Symphony Of Enchanted Lands per intenderci. I testi in italiano della prima strofa sono epici: «Devi dire cosa tu vuoi dalla morte / Ritornar dopo questo giorno / per vivere le tue stagioni!». Felipe Andreoli (Angra) disegna linee di basso interessanti, peccato non ci sia un Russel Allen alla voce, magari affiancato da Simone Simons… Mistheria si prende, infine, meritatamente la soddisfazione di concludere con i suoi synth un progetto che senza di lui non sarebbe mai nato.

Dopo un’ora vissuta tra virtuosismi speed metal possiamo chiederci, con un po’ di saccenteria: “Il mondo poteva fare a meno di questo ennesimo progetto tra passato e presente?” Il Vivaldi Metal Project ha regalato indubbiamente un disco eclettico, che miscela (quasi sempre in modo sapiente) power, gothic e prog. alla musica d’arte. Pezzi come “The Illusion Of Eternity”, “The age of dreams” e “The final Hour” meritano una menzione speciale. Pochi i veri filler, tutti gli artisti chiamati in causa dimostrano di essere dei professionisti, anche se alcuni sono poco noti al grande pubblico. Mistheria ha poi il merito di essere riuscito a rendere coeso un album con un simile cast, impresa non facile e degna di un mastemind come A. A. Lucassen. Consigliamo l’album, dunque, chi lo ascolta si sentirà migliore, più motivato al bel vivere, magari seguendo l’Adagio dell’Autunno:

 

Fa’ ch’ ogn’ uno tralasci e balli e canti
L’ aria che temperata dà piacere,
E la Staggion ch’ invita tanti e tanti
D’ un dolcissimo sonno al bel godere.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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