Recensione: The Impassable Horizon

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 28 Giugno 2021 - 14:53
The Impassable Horizon
Etichetta: Metal Blade Records
Genere: Death 
Anno: 2021
Nazione:
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74

Nel vivere comune, nelle varie vicende che la vita talvolta offre all’uomo, si pongono delle questioni, di complicata risoluzione, in cui si contrappongono la voglia di vincere e il timore di essere coinvolti in una presunta e possibile sconfitta. In questi frangenti emerge la capacità che si ha di gestire, in maniera furba e machiavellica, le varie opportunità e possibilità. Trattasi dunque di una scaltra gestione delle occasioni.

Probabilmente in questa situazione si saranno trovati, probabilmente ignorandola, i Fractal Universe con la loro ultima fatica intitolata The Impassable Horizon. Un disco molto bello, suonato molto bene, che si inserisce nel solco del metal moderno, che però proprio da questo attinge strutture, stilemi e caratteristiche che ormai sono divenute diffuse e per certi aspetti, da alcune band, abusate.

Questa caratteristica emerge da subito, infatti l’apertura di Autopoiesis se immediatamente fa pensare al Black classico e vintage dopo pochi secondi porta l’ascoltatore ad affacciarsi sul panorama di quel Metal moderno di cui si accennava prima. Si ripete: un panorama che purtroppo è divenuto, in questo momento storico, fin troppo identificativo, caratterizzante e purtroppo “caratterizzato”. Questi secondi musicali fanno celermente emergere alcuni legami con band famose e prestigiose, vedi i Soilwork.

Tra gli aspetti distinguenti ci sono le tante contaminazioni che la band di Nancy, in questo loro terzo album, ha messo in musica. Tra queste, talvolta prevedibili e abusate, appare interessante l’utilizzo del sax che irrompe piacevolmente, come se si stessero ascoltando i Morphine, nel corso del brano A Clockwork Expectation e che poi si ripeteranno. L’utilizzo del sax, in realtà, non è una novità per i Fractal Universe, infatti l’utilizzo di questo strumento lo si può ascoltare già in Fundamental Dividing Principle, brano tratto dal precedente album Rhizomes Of Insanity.

Nell’appena citato brano A Clockwork Expectation emerge un’altra bella caratteristica dei Fractal Universe, vale a dire le “sospensioni” sonore che portano l’ascoltatore in un limbo indefinito nell’attesa che possa accadere qualcosa.

Questa modalità, che si ritrova in diversi passaggi del disco, in realtà sposa la colonna portante essenziale dell’album; infatti questo, a differenza del lavoro precedente Rhizomes Of Insanity, appare, oltre che più squisitamente complesso e claustrofobico, più intimo, cupo, oscuro e per certi aspetti addirittura capace di mettere in ansia l’ascoltatore.

Questa particolare e piacevole stato di incertezza, di sospensione, talvolta di smarrimento, trova una realizzazione ulteriore nella voce di Vince Wilquin, capace di essere generosa, cangiante, autentica, indomabile nei passaggi tra il clean e il growl.

L’ascolto del disco quindi presenterà tutti gli ingredienti per portare a qualcosa di piacevole e meritevole di essere riascoltato.

Autopoiesis è il biglietto da visita dell’album, a questa song il ruolo scomodo di aprire le danze. È un brano d’impatto, senza dubbio ciò che ci si aspettava e che non può che far piacere ai fan del combo. Le clean vocals del bridge non sono ispiratissime, ma contribuiscono (e lo faranno per tutto il disco) a rendere quell’effetto “suite” ad ogni brano che seguirà.

Il video promozionale di A Clockwork Expectation è già disponbile da qualche giorno ed è di classe superiore alla media. È stato girato a Gouffre de Poudrey, la grotta attrezzata più grande della Francia, a 70 metri sottoterra. Davvero un prodotto incredibile, per location e riprese. Musicalmente si è nel pieno del mondo frattale, il bridge con i break è una delle cose più inaspettate e interessanti di tutto il disco, anche se onestamente non per l’idea ma per arrangiamento. Si notano subito gli stilemi del genere: batteria in primo piano, chitarre ritmiche scavate al limite e senza corpo, un’attenzione maggiore per le riverberazioni delle chitarre e delle voci. Un wall of sound che ricorda i lavori degli Obscura (non solo quello) e che purtroppo pecca di potenza a volte. Scelta stilistica che si rivelerà azzeccatissima soprattutto in presenza del sax di Vince Wilquin.

Interfering Spherical Scenes presenta un intro particolare e trascinante che poi lascia spazio a quelli che si riveleranno fin troppo essere presenti su tutto il disco: i mid tempo delle strofe. A volte il loro ingresso sarà così sfacciatamente irruento da risultare addirittura fastidioso. La definizione di “Progressive/Technical Death Metal” da sempre fa riferimento ai numerosi cambi di tempo o alle funamboliche parti soliste, peccato però che per le fasi di preparazione, cadenza, risoluzioni armoniche ne è irrimediabilmente privo.

Symmetrical Masquerade è anticipata dal Guitar Playthrough presente sul loro sito, un brano molto variegato, con parti più soft e chitarre che respirano e si intrecciano con una complicità fuori dal comune. Vince Wilquin e Hugo Florimond qui sono in gran spolvero.

La loro vena creativa e la tecnica sullo strumento fanno da pilastro portante, senza dimenticare la cosa più importante: l’alchimia. L’intro è davvero interessante e d’impatto. L’ingresso delle clean vocals non è all’altezza della situazione, anzi risultano pesanti e ripetitive, soprattutto tenendo presente le solite formule e strutture prese in prestito agli Alkaloid, band da citare inevitabilmente per sound e stile.

La successiva Falls of the Earth è infatti la più Alkaloid-oriented, ma la cosa è tutt’altro che negativa. Si lascia ascoltare con molta facilità pur essendo complessa. Qui all’interno del mixing è interessante notare la collocazione dei tom, il finale in fade e le voci definitissime.

Segue Withering Snowdrops, uno dei punti più alti dell’intero platter, non sotto l’aspetto tecnico, ma sotto quello compositivo. Un grande brano carico di rabbia, ispirazione e pathos. Lo stacco dopo l’ingresso della voce stile stoner è da headbanging e altrettanto interessante è il bridge. Qui la scrittura è più uniforme, di sicuro verrà definito il brano meno rappresentativo dai fan più affezionati, ma è innegabile che qui è tutto più legato e arrangiato con un’idea d’insieme. Si consiglia vivamente l’ascolto anche ai non amanti del genere.

Black Sails Of Melancholia vede un arpeggio iniziale e il solito Vince Wilquin al sax. Il più intimista tra gli episodi sonori, i chorus sono il giusto completamento per impatto emotivo ed esecuzione tecnica.

Su A Cosmological Arch si denota un po’ di stanchezza, almeno per quanto riguardo l’intro. Il cantato growl è sempre convincente (come per tutto il disco). Le clean vocals, come già abbiamo avuto modo di far notare, un po’ peccano in creatività ma in fin dei conti è comunque un marchio di fabbrica della band (o forse del sottogenere tutto). Emergono qui le doti al basso di Valentin Pelletier, che dapprima svisa in solitudine, poi duettando col sax di Wilquin. Momento sui generis ma davvero molto apprezzato da chi scrive. Il blast beat di Epitaph vale tutto il disco.

Bellissime le polifonie vocali su Godless Machinists, brano che cattura l’ascoltatore e che conferma quanta passione ci sia dietro questa ultima release. Ogni nota è frutto di ricerca, i fraseggi chitarristici di Vince Wilquin e Hugo Florimond sono evocativi e intensi. Di certo un disco non di facile assimilazione, cupo, claustrofobico ma allo stesso tempo che strizza l’occhio ad un qualcosa di positivo. Concetto, quest’ultimo, reso palpabile dopo anche un solo ascolto di Flashes of Potentialities (Unplugged), una ballad degna d’attenzione con un chorus intenso e raffinato. L’arrangiamento è tutto da scoprire, nelle strutture e nella suddivisione dei ruoli tematici. Di gran lunga una dei brani di chiusura più azzeccati e ispirati (finale a parte) degli ultimi tempi, non solo considerando la scena Death metal.

Un bel disco quindi The Impassable Horizon che certifica i Fractal Universe come una della band più interessanti del genere.

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