Recensione: The Sleeping City
 
                                    
                                Giunti al fatidico terzo disco in studio gli svedesi An Abstract Illusion si trovano davanti al difficile compito di bissare il successo di critica e pubblico di quello che è stato un lavoro cardine della scena progressive death degli ultimi anni – il loro disco del 2022 Woe difatti, fu un gioiellino che letteralmente mandò in brodo di giuggiole gli amanti di queste sonorità, riuscendo a coadiuvare a una brutalità disarmante, un senso di tristezza, malinconia e disperazione, con una brillantezza compositiva invidiablie – Oggi la band svedese dopo un disco di tale portata, decide di non poggiarsi sugli allori facendo uscire un disco fotocopia rispetto al precedente, bensì spingendo il suono, le atmosfere, la produzione e anche l’immagine verso lidi diversi.
Non a caso abbiamo citato come ultimo punto proprio quello dell’immagine dato che The Sleeping City introduce l’ascoltatore in questo viaggio sonoro con una copertina splendida, ma che è anni luce di distanza come impatto visivo da quella enormemente più tetra del suo predecessore. E la musica è esattamente la prosecuzione naturale di questa visione, dove se Woe portava con se spiragli di malinconia in un oceano di devastazione (in perfetta sincronia con l’artwork), The Sleeping City è più un viaggio etereo, sognante, spaziale, dove l’oceano di devastazione citato prima diventa un velluto di sogni contrastato da sporadici solchi sonori di rabbia. Dunque gli ingredienti a questo giro vengono ribaltati, il nostro viaggio anziché essere di color nero pece accende degli spiragli vellutati, in cui a tratti sembra quasi di planare sopra un tappeto di nuvole di color porpora, sorvolando i cieli di questa “città dormiente”.
Concettualmente The Sleeping City non è solo un luogo immaginario ma uno spazio in cui la band esplora il suo lato più intimo e umano. Un viaggio nella psiche dove le proprie fragilità vengono messe a nudo in delle liriche poetiche ma spesso criptiche che possono avere molteplici significati a seconda dell’angolazione con cui le si approcciano. Ma cosa rende musicalmente questo disco diverso dal suo predecessore? La cosa più evidente è senz’altro l’uso massiccio di synth – difatti dove in Woe il suono adoperato dalle tastiere era molto spesso quello di un pianoforte classico, ecco che in questo album i sintetizzatori donano un taglio estremamente progressivo, psichedelico ed atmosferico al disco, con sezioni in cui ci si avventura quasi verso lidi synthwave. Una scelta azzeccatissima questa, che si lega perfettamente col carattere spaziale, atmosferico e “vellutato” del disco.
Un altro fattore sono gli assoli di chitarra di forte stampo floydiano che ancora una volta con il loro suono avvolgente, etereo e corposo ci regalano quell’effetto spaziale e grandioso che si addice perfettamente al tono del disco. Non c’è dubbio sul fatto che la band in questo lavoro avesse una visione ben definita per quanto riguarda il tipo di viaggio che voleva far intraprendere all’ascoltatore. Un viaggio dalle caratteristiche diverse da quelle del suo predecessore, da un certo punto di vista più complesso e stratificato (in particolare se pensiamo alla produzione), da un altro sicuramente un album che vive meno di contrasti taglienti tra rabbia e malinconia, per un connubio di sonorità più omogenee.
Un’altra caratteristica che vede questo disco divergere da Woe è la struttura dell’album- Se difatti il capolavoro del 2022 era strutturato quasi come un’unica composizione divisa in vari capitoli rappresentanti i brani, dove ognuno di essi sfociava nell’altro, dando quel senso di continuità al disco, in questo caso i pezzi sono ben delimitati da un chiaro inizio e una chiara fine. La sensazione finale rimane sempre quella, ossia di un disco che va ascoltato dall’inizio alla fine per meglio assaporare la sua essenza, ma non c’è dubbio che i brani di questo album hanno una struttura molto più definita rispetto a quelli del precedente. C’è anche una varietà vocale maggiore nel platter in questione, dove appaiono degli special guest come Lucas Backestrom nel brano Frost Flower, pezzo in cui la sua voce in clean spicca in maniera considerevole e ci regala un momento encomiabile di calore e meraviglia. Altri sono i violinisti Dawn Ye e Flavia Fontana, il violoncellista Jonathan Miranda- Figueroa, ma non dobbiamo dimenticarci del nuovo batterista Isak Nilsson, autore di una prova straordinaria e variegata dietro le pelli.

L’album è composta da sette brani in circa un’ora di durata complessiva per un viaggio che parte con Blackmurmur in un’altalena di synth ed interessanti partiture di batteria. Molto succede negli undici minuti di questa opener e subito si nota la timbrica “arcigna” del vocalist che in molti dei suoi passaggi vocali ci ha ricordato Shagrath dei Dimmu Borgir, donando a questo disco un connotato “black” non tanto nei suoni, quanto nelle atmosfere e nelle sensazioni provate. Melodiche e sognanti le chitarre, delicate le tastiere, mentre delle parti in pulito colorano l’affresco sonoro della band con un’aurea di calore che arriva diretta al cuore. Dopo uno stacco chitarristico di puro stampo gilmouriano, etereo e sfumato, eccoci dinnanzi ad una sezione di elettronica minimale, sorretta ancora una volta da degli straordinari fill di batteria, prima che il pezzo si tuffi nella sua sezione più debordante.
C’è tanta ricchezza sonora in questo disco degli An Abstract Illusion ed un “layering” notevolmente ambizioso che richiederà ascolti ripetuti per poter apprezzare le più piccole sfumature di un suono in continua evoluzione.
No Dreams Beyond Empty Horizions parte con uno strumming acustico prima di sfociare in un riffing granitico ed ossessivo alternato a delle sezioni arpeggiate. Un muro sonoro di un certo rilievo, prima che una sezione in spoken-word apra un velo di malinconia sulla rabbia iniziale di questo pezzo. Quel “LOST IN TIME” scandito in maniera oscura ed opprimente dal vocalist, è la classica nuvola nera in un contorno di rivestimenti d’argento, gentilmente concessi da degli scambi di assoli tra chitarra e synth, entrambi sulfurei ed avvolgenti, prima che un muro di blast-beat ci travolga – perché sì, quando questo disco decide di essere pesante lo sa essere eccome! Delicata e soave la sezione di pianoforte che ci conduce in una conclusione puramente ambient, dove risuona ancora una volta quella chitarra calda e corposa che ci rimanda per l’ennesima volta al maestro David Gilmour.
Like A Geyser Ever Erupting non poteva avere un titolo più azzeccato per descrivere il viscerale e roboanti inizio chitarristico del pezzo. Una sorta di esplosione, un’eruzione vulcanica che scava solchi indelebili nello strato sonoro trasposto dalla band, tra slide-guitars e “pinch harmonics” in pieno stile Gojira che rendono questa sezione una delle nostre preferite dell’intero album. Anche qui non mancano aperture melodiche evocative, clean vocals melodiche, nel contesto di un brano che è un vero e proprio schiacciasassi, dove in una sezione abbiamo addirittura quasi un mini-breakdown trascinato che si carica di intensità protraendosi per diversi secondi prima di sfumare in una sezione puramente atmosferica con tanto di “swirl” di tastiere.
Frost Flower rappresenta il fulcro emotivo dei disco e anche uno dei nostri brani preferiti. È un brano carico di pathos ed atmosfere ultraterrene dove il velo di synth ci trasporta verso lidi e città inesplorate. L’attacco vocale dello special guest già menzionato è assolutamente il fiore all’occhiello del pezzo, regalandoci una vulnerabilità nella sua voce ed un calore così tangibile che riuscirebbe senza dubbio a far sciogliere quel “fiore congelato” che viene introdotto nel titolo. Effettivamente il contrasto tra “frost” e “flower” rappresenta benissimo la dualità di questo pezzo, dove oscurità e speranza danzano a braccetto in un tripudio di suoni. Da pelle d’oca l’assolo sul finale.
Emmett è l’ennesimo brano lunghissimo del disco con i suoi undici minuti. Anche qui una chitarra acustica apre le danze, accanto ad un mormorio e dei suoni quasi tribali. Le sezioni di sinfoniche associate ai synth si coadiuvano in un’armonia perfetta, prima che il pezzo si scateni varcando le porte dell’oblio. Forse giusto un pochino prolissa la sezione strumentale posta al centro del brano.
Silverfields può essere quasi visto come un intermezzo strumentale (ma non per questo meno meritevole del resto dell’album), prima del gran finale che risponde al nome della title-track, un pezzo che ha un vibe quasi alla Summoning o alla Caladan Brood e che rimane una delle composizioni più atmosferiche e avvolgenti dell’intero platter, dotata oltretutto di un climax emotivo che ripaga l’ascoltatore del lungo viaggio che ha appena intrapreso.
“the city woke from its eternal slumber to the serene sounds of sirens, no one knows how it happened or when, and yet it did”
Il risveglio dal torpore può essere l’emblema di una rinascita interiore e mentre i suoi abitanti si scuotono da un sonno durato sin troppo a lungo, ecco che una nuova consapevolezza nasce in ognuno di noi. La città era solo un luogo in cui la nostra mente ha trovato rifugio, un luogo per proteggerci dalle insidie del mondo reale e mentre le sue mura crollano e i suoi confini vengono nuovamente offuscati, persi per sempre nella penombra di un’illusione, ecco che un nuovo “io” si erige sulle sue fondamenta.
La pressione e le aspettative erano tante nei confronti di questo incredibilmente talentuoso quartetto progressive death svedese dopo l’uscita dell’acclamatissimo Woe nel 2022 e con questo nuovissimo The Sleeping City, gli An Abstract Illusion sono riusciti nell’arduo compito di evolversi in un qualcosa di più progressivo, astratto, atmosferico, con una produzione ed un suono più ricco di sfumature ed un sound forse meno carico di contrasti e più omogeneo rispetto al suo predecessore, ma comunque di sicuro impatto. Se cercate un clone di Woe potete anche passare oltre, ma se riuscirete ad apprezzare le novità stilistiche di una band in perenne ricerca di innovazione, immergetevi pure in questa “città dormiente”, un’avventura che vi regalerà tanto, a patto che riusciate ad avere la pazienza di scovare ogni suo piccolo dettaglio ascolto dopo ascolto.
 
                