Recensione: Towards Divine Death
Un raggelante incipit ambient ritmato dai lugubri rintocchi di una campana non è certo il massimo, in fatto di originalità. Una falsa partenza che rischia di minare alla base il contenuto artistico di “Towards Divine Death”, secondo full-length dei finlandesi Lie In Ruins.
Non solo.
Una volta cominciata, “Endless Void” sembra un raffazzonato guazzabuglio di arcaiche tipologie musicali come il death metal dei primi anni ’90 (ora ‘old school’) in primis, il black à la Bathory di “The Return……” (1985) poi e, infine, il doom di “Epicus Doomicus Metallicus” (1986) dei Candlemass. Circostanza facilmente spiegabile con il fatto che la band sia nata nel 1993, ma che non giustifica la messa alle stampe, oggi, di un prodotto che non pare affatto tener conto, sia in termini artistici sia realizzativi, dell’evoluzione compiuta dal metal estremo negli ultimi trent’anni. Se in più ci si aggiunge che “Towards Divine Death” dura più di un’ora e dieci minuti, e che in tale lasso di tempo sono praticamente inesistenti le variazioni dal tema principale espresso nell’opener stessa, ecco che – per i Lie In Ruins – il destino appare inesorabilmente segnato.
Invece, quelli che sembrano essere dei vizi insormontabili e quindi del tutto limitativi si rivelano, con il giusto tempo, passaggio dopo passaggio, le virtù principali del combo scandinavo. Esattamente come accadeva con Quorthon, il caos strumentale, il convogliare l’energia in un indefinibile muro di suono, il rifiuto per le rese sonore limpide e cristalline, sono azioni che donano al sound un terribile senso di claustrofobia. Anzi, di agorafobia, giacché la massa sonora in perenne movimento dei Lie In Ruins alimenta visioni di sterminate lande brulle e desolate, dominate da un cielo eternamente griglio, plumbeo, immoto, in cui regna perennemente in agguato un indefinibile quanto terribile pericolo. I settanta e più minuti del platter cronometrano lo strazio di un lento trascinarsi fra le rocce, i picchi e i burroni dei pensieri più morbosi della mente umana. Pensieri che magari decelerano comprimendo la cassa toracica oppure accelerano verso la follia grazie agli stimoli dei rozzi blast-beats di Aki K. Un andirivieni ritmico tenuto per mano dall’indistinguibile grugnito di Roni S., capace di un growling monotono e profondo come il condotto di Lucifero.
Un’interpretazione delle linee vocali che pone le vibrazioni dell’ugola sullo stesso piano di quelle degli strumenti, talmente è lontana dal concetto di umanità. Difficile discernere pure i riff delle chitarre, per i quali la filosofia fondante è all’opposto di quella per esempio del thrash; preferendo Tuomas K. e Roni Ä. un approccio volto a tessere robuste trame di un tappeto in cui non si riescono a mettere a fuoco i ricami. Soprattutto quando la terra sotto i piedi inizia a scottare, in occasione cioè dei segmenti più volenti delle song come in “I Am The Dark”, devastante assalto sonoro dallo sfascio totale. I Lie In Ruins, però, riescono a mantenere il loro arcaico death metal, anche e forse più, quando i BPM diminuiscono sino quasi all’assenza di battiti come nella pesantissima “Sacrum Vitae”, letargico avvitamento verso il centro della Terra, e in “Of Darkness And Blackened Fire”, suite finale che si arrotola su se stessa come le spire di un serpente d’indefinibile lunghezza.
La formazione nordeuropea, insomma, con “Towards Divine Death” sospende lo scorrere del tempo costringendolo a fluire in uno sterminato acquitrino in cui giacciono innumerevoli carcasse in decomposizione. Un brodo primordiale in cui il sentore di morte raggiunge livelli insostenibili, portando continuo nutrimento al death metal ‘super old school’ dei Lie In Ruins.
Perché, alla fine, di questo si tratta.
Daniele “dani66” D’Adamo
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