Recensione: Wings Of Rage

Di Matteo Orru - 20 Gennaio 2020 - 10:30
Wings Of Rage
Band: Rage
Etichetta: Steamhammer / SPV
Genere: Power 
Anno: 2020
Nazione:
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75

Ventitreesimo disco? Ventiquattresimo? Difficile tenere il conto ormai.
Partendo dal 1985 col seminale disco degli Avengers, embrionale creatura dalla quale nacquero i Rage di Reign of Fear e il loro acerbo speed metal che ha fatto scuola, se contassimo la smisurata quantità di singoli, EP, cofanetti, raccolte, live e chi più ne ha più ne metta, sarebbe davvero facile perdersi nella ormai sterminata discografia ufficiale della band.
Saltando a piè pari statistiche, classifiche, conteggi e quant’altro, che affidiamo alle sapienti manti di un’agenzia di marketing o di ricerche di mercato, con Wings Of Rage abbiamo a che fare con la nuova fatica della band, che segna la terza uscita discografica con l’attuale formazione, che pare abbia davvero iniziato a prenderci gusto nello sfornare album di solidissimo metallo teutonico.

A dispetto di tutte le altre power metal band provenienti da terra germanica formatesi nello stesso periodo, i Rage sono gli unici che negli anni hanno continuato a registrare lavori che fossero all’altezza del loro nome, tenendo delle medie qualitative (così come quantitative) con livelli superiori a qualsiasi altra band di stesso segmento.
Tuttavia appena è arrivata la copia promozionale di Wings of Rage se da una parte le aspettative erano quelle di un classico e canonico disco di buon livello – come loro solito – il timore era quello di trovarci al cospetto di un quantitativo di filler e riempitivi inseriti qua e là, al fine di onorare le esigenze contrattuali che li hanno visti pubblicare ben quattro release ufficiali in tre anni e mezzo (tre a marchio Rage, una sotto Refuge).

Cosa dobbiamo aspettarci da Wings of Rage?

Una copertina che spicca nell’immensa discografia della band, tra contrasti cromatici a base di viola e verde e un Soundchaser formato demone alato, ci riportano indietro nel tempo, instillando ulteriore curiosità e stuzzicando la fantasia nostalgicamente classica che nutriamo noi anime metallare old school; pertanto è corretto approfondire la conoscenza ed entrare in confidenza con questa creatura dalle tinte acide, quasi esotiche. Non c’è niente da fare. True apre il platter in maniera rocciosa e massiccia come volevamo sentire! Un riff granitico senza fronzoli dà il via a una prima strofa con la voce di Peavy sommessa al limite del narrato, per poi trasformarsi nelle sue classiche linee melodiche, prima di esplodere nel più anthemico dei ritornelli che si infila nelle cervella già dopo il primo ascolto. Tutto quadra e tutto torna così come in Let Them Rest in Peace: chitarre sugli scudi al limite del thrash dove la strofa è ciò di più classico che ci si possa aspettare dai Rage, divenendo di fatto uno dei migliori pezzi del lotto, grazie alla riuscitissima combinazione strofa ritornello che suonano come un tutt’uno. Tutto suona come previsto, la band gira a mille e pare proprio che il periodo di rodaggio che prende il nome di The Devil Strikes Again e Season Of The Black, primi due riuscitissimi platter con questa formazione, siano serviti per dare maggiore confidenza e nuova linfa vitale alla creatura teutonica; infatti spetta a Chasing The Twilight Zone e la successiva Tomorrow a ribadire il concetto a dito alzato come in segno di lezione ad avvalorare questa tesi. Due brani tanto canonici quanto efficaci, nessuna sorpresa, solo certezze che servono ad avvalorare la tesi che abbiamo sempre sostenuto: Peavy come compositore non è secondo a nessuno, tantomeno a nomi più blasonati e incensati del metal mondiale.

Sino a questo momento il disco si assesta su livelli che rasentano l’eccellenza, tanto è subdolo e barbaro l’operato di questo immenso e corpulento artista, ma non tutto può sempre filare liscio, sarebbe persino noioso: qualche intoppo in questo ennesimo viaggio metallico ci deve pure essere e infatti la title track scricchiola un po’ rispetto alle prime quattro mine antiuomo e il problema è quello che accomunerà i pezzi meno riusciti dell’intero disco, ossia il ritornello. La song parte alla grande con una delle strofe meglio riuscite di tutto il lavoro, per poi ammorbidirsi eccessivamente nel ritornello che, pur essendo coinvolgente e melodico, risulta debole e smorza l’attacco frontale ritmico di tutta la canzone, interrompendo lo sfrenato headbanging scatenato dalle prime note. Un vero peccato perché se ci fosse stata una maggiore cattiveria nel riffing a discapito dell’arpeggio, staremo parlando di un pezzo da dieci e lode. Come spesso è capitato in alcuni dischi, i Rage amano piazzare qualche mini concept all’interno di un disco, così come nel capolavoro del 2001 Welcome To The Other Side oppure nel meno riuscito Strings To A Web o nel penultimo Seasons Of The Black. Pure in questo caso Peavy si cimenta in tre capitoli più intro, strettamente connessi tra loro, che danzano in ambienti sinfonici. Terreni ben conosciuti dal nostro beniamino, che inizia questo viaggio nel viaggio con la breve Shadow Over Deadland (The Twilight Transition), il più canonico degli intro che stende il tappeto alla maestosa A Nameless Grave, un oscuro incedere, mai eccessivamente veloce ma dannatamente pesante, con le orchestrazioni che tessono melodie agrodolci durante tutta la sua durata sino ad arrivare al sontuoso assolo di un ottimo Marcos Rodriguez, sempre più a suo agio nel ruolo di axe man, che fa letteralmente piangere la sei corde risultando essere davvero un mostro dello strumento. In definitiva probabilmente l’episodio più bello del disco e forse degli ultimi tre lavori in studio con questa formazione. Chapeau. E’ un vero peccato perché la più solare e speedy Don’t Let Me Down non riesce a reggere il confronto; la partenza a fuoco con tanto di strofa e bridge da brividi viene letteralmente smorzata dal ritornello più fiacco dell’intero disco; non basta la coralità e i controcanti ad avvalorare il tutto, arrivando a far storcere il naso e invogliando lo skip dopo metà song. Così come in parte fa l’ultimo capitolo di questo mini concept, la power ballad Shine A Light, impeccabile dal punto di vista strumentale, ma che a lungo andare si trascina lentamente non potendo venire ricordata come una delle migliori ballad della band.

Mentre ci avviciniamo alle battute finali, in penultima posizione troviamo Blame It on the Truth, che la definizione B side o, ancora meglio, bonus track gli calzerebbe a pennello mentre ci pensa For Those Who Wish to Die a chiudere le danze col botto: un brano potente, epico, cattivo in piena tradizione Rage anni Novanta, dove anche in questo caso il ritornello non fa la parte del leone ma non va in conflitto con il resto della song, amalgamandosi alla grande nelle atmosfere orientaleggianti che si sviluppano in maniera marziale e anthemica, grazie all’ottimo cambio di tempo tra la parte portante e lo stesso ritornello. Ennesimo lavoro egregio di Rodriguez in stretta collaborazione con Vassilios Maniatopoulos, una delle vere note liete del disco; il drummer allievo di Chris Efthimiadis, come non mai, fornisce una prova da encomio grazie all’utilizzo di fill mai scontati e una fantasia negli arrangiamenti degna di batteristi più blasonati donando dinamicità e vivacità a tutti i pezzi.

Wings Of Rage può essere definito un buon disco dei Rage e, considerata la mole discografica della band che proviene quasi esclusivamente dalla penna del proprio leader Peter Wagner, non possiamo fare altro che inchinarci davanti a così tanta abnegazione, coerenza e dedizione alla fiamma metallica che il mastodontico bassista cantante, anno dopo anno tra mille difficoltà, cambi di formazioni e quant’altro, continua ad alimentare fornendo prove superiori alla media e su altri livelli rispetto a qualsiasi band dello stesso periodo storico. In un disco di dodici pezzi (uno dei quali è una intro e l’altro è la volutamente non citata rivisitazione del loro grande classico Higher Than The Sky in versione speed: evitabilissima), almeno cinque brani risultano essere delle piccole gemme di power metal teutonico da dieci e lode, mentre i restanti brani non sfigurano, anche se non si elevano dallo status di canonici buoni pezzi divertenti, ma non memorabili. Impossibile chiedere di più a una band che dimostra maturità, coesione e che ogni anno e mezzo ci regala un disco di inediti di alto livello, senza mai deludere le proprie legioni di fan. Specie a distanza di trentacinque anni dalla fondazione e ventiquattro platter. Scusate se è poco. Rispetto e venerazione.

 

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