Recensione: World Metal – Kosmopolis Sud

Di Tiziano Marasco - 4 Febbraio 2015 - 10:55
World Metal – Kosmopolis Sud
Band: Solefald
Etichetta:
Genere: Avantgarde 
Anno: 2015
Nazione:
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90

Kosmopolis, it is something new!

Questo verso, che apre il ritornello di World Music with Black edges, ai più sembrerà tronfio ed arrogante, soprattutto tenendo presente di due semplici fattori: la prima parte di Kosmopolis, che voleva elogiare le radici prog dei norvegesi Solefald, era riuscita piuttosto bene, ma poteva riuscire piuttosto meglio. Diciamolo chiaramente, dai principi dell’avantgarde ci si aspetta ben altro che un discreto ep dalle tinte grige e smunte, nonché di tracce da venti minuti che son fatte di brani incollati un po’ ad minchiam, come direbbe Giordano Bruno.

Va però aggiunto che sua eccellenza Von Jakhelln aveva lasciato intendere che quel lavoro fosse un’opera estemporanea – mentre a tratti invece Norronasagen ai più doveva essere parso una propaggine dell’ottimo Norron Livskunst, peraltro assemblata con scarti dello stesso. Sia quel che sia, Cornelius aveva aggiunto che World Metal – Kosmopolis part II sarebbe stato qualcosa di profondamente diverso. E ciò era stato confermato dal brano di presentazione di Kosmopolis II – Bububu Bad Beuys, che ci conduce alla seconda parte del ragionamento introduttivo. Quella roba (a chi scrive par difficile definirla altrimenti, previa non ricevere 92 minuti di applausi) faceva rimpiangere perfino Tittentattenteksti, altro pezzo che aveva causato nel vostro affezionatissimo brividi d’emozione tutt’altro che positiva.

È forse sufficiente campionare chitarre zanzarose, percussioni di Tanzania e un pollo che viene spennato per fare avantgarde? La risposta la sapete tutti. Ma da un lato quel numero in fondo alla recensione vi farà intuire che il resto dell’album sia di ben altro livello. E non si può nascondere che a Norron Livskunst sia stata data una possibilità a dispetto di Tittentattenteksti.

Regressum ad futurum

Vi sono band che dopo alcuni album tradizionali si danno alla spermimentazione, per poi tornare sui loro passi e fare la brutta copia di ciò che facevano all’inizio. Ecco, i Solefald con tale procedimento non hanno nulla a che vedere. Pure, all’inizio avevano dimostrato che black metal, jazz, hip hop ed elettronica potevano convivere in tracce dal minutaggio ridotto. Dopodiché avevano dato una loro particolarissima visione del viking. Non facciamo titoli, lo sapete da voi.

Ebbene, è giunto il momento anche per gli eroi della Red Music di tornare al loro insolito ovile. Ve lo diranno già nei testi, in cui ricompaiono il linear scaffold (is a christian invention), il macho vehicle sull’Autobahn del tempo e la fluorescent orchestra mimetizzata in una stessa strofa. Per dire.

Kosmopolis riprende le sonorità, l’iconoclastia e la libertà di accostamento dell’unico, inarrivabile, irripetibile (o quasi) Neonism. E ve ne renderete conto subito, fin dalla già citata World Music with black edges, che oltre a diffuse ritmiche tribali a far da contesto ad un pezzo estremo, offrono due giri di tastiera in cui l’improvvido Nedland si traveste da Gabry Ponte. Per un effetto complessivo strepitoooso! World Music with black edges sballotta l’ascoltatore da un cambio di ritmo a un cambio di genere, rivelandosi ciò nonostante godibilissima e di facile assimilazione, tanto è pervasa di attitudine pop.

Impressioni confermate anche nella German Entity in seconda posizione, brano caratterizzato da una tetrapartizione che altalena strofe Rammsteiniane e cori wagneriani a suggerire sovrumani spazi e interminati silenzi, ma che ve lo sto a dire. Il Nedland continua a spadroneggiare da par suo – e vi assicuro che spadroneggia pure in Future Universe. Ai cori questa volta. A ogni disco pensi che abbia raggiunto l’apice della sua arte vocale e delle sue abilità di tessitor di cori. Poi esce il disco successivo e scopri di aver sbagliato analisi una volta ancora.

Tamarreide norrena (World metal e non solo)

Attitudine pop, costruzioni che sono molto più prog di Norronaprogen, mix di generi per distruggere qualsiasi confine. Può bastare? Sì, anzi una band normale se lo sogna tutto questo. Il fatto è che questo disco è permeato da una certa cafoneria, il suono è iperpompato. Questo fenomeno di pompare a dismisura il proprio sound aveva conosciuto fortunati predecessori nella scorsa decade, dando prova del fatto che l’ignoranza applicata al metallo paga. Ora qui l’ignoranza è una maschera, ma paga eccome. Le divagazioni di tastiera pontina le troverete dove meno sono opportune – le ritmiche tribali, direte voi, che hanno a spartire con (dico a caso) The USA dont exist? Avete ragione. Ed è proprio per questo che negrate e truzzerie spaccano. Sembrerà incredibile, ma arricchiscono le canzoni, ci cadono bene, pur non avendo nulla a che spartire con il metal. Non le trovate dovunque, ma soffermiamoci un attimo su Le Soleil, un pezzo che parte dal black , ma in realtà è caciarone in virtù delle debordanti percussioni tribali, pieno d’energia e (grazie al…) solare.

Ma al di là di questi discorsi e degli sproloqui che sentirete nell’album, se ascoltate bene, permane un fatto. La tamarreide norrena rende il disco divertente. Nel senso più pascaliano del termine. Non è che siam qui a vedere un film di Buster Keaton. E ciò nonostante, il disco, sotto la sua faccia arrogante e palestrata, si rivela, al solito, profondo, stratificato. Ti diverti, ma se devi spiegar perché non sai da dove cominciare. Non manca qualche episodio epicamente pagano, come String the bow of sorrow, un pezzo che effettivamente è fatto di soli sovrumani spazi e sottofondi orientaleggianti che avevamo già apprezzato in white frost queen, o nel breve outro Oslo melancholy. Det is gud for iu, ma per capirla tutta sarà bene spendere due parole sui testi. Potremo tornare a quel Soleil, una parola che vi farà capire molte cose.

Avantgardische Textbildung

Che c’entrano Freud e Celine Dion? No volevo dire, Soleil è una canzone in francese, cosa che non succedeva da In Harmonia Universali. E comunque Celine Dione e Freud sono in un altro pezzo. Ma tant’è, il punto fondamentale di Kosmopolis a livello di testi, è la babele linguistica. Dopo Pills e l’Icelandyc odissey totalmente in inglese, dopo Livskunst e Kosmopolis I in norreno ottocentesco, i nostri tornano a mischiare le lingue come fossero gli ingredienti di una Tequila Sunrise.

E se anche l’inglese la fa da padrone, i quattro idiomi fondamentali (cioè quello d’Albione, quello di Sartre, quello di Schopenauer e quello di Odino) sono qui tutti presenti. Tutte le canzoni poi ne hanno almeno due al loro interno.

E di che parlano questi testi? E perché non c’è la Lamborghini Moon? Chi può dirlo, fatto sta che la matrice fondamentale sembra essere l’autocitazionismo (oltre a quanto detto, la parola Solefald viene espressamente citata in 2011, or a Knight of the Fail e String the Bow of Sorrow) e, per le parole come per i suoni, l’accostamento di temi che non c’entrano nulla ma tutto sommato fanno un bell’effetto, anche se alla fin fine potrebbero non voler dire nulla. Un po’ come in Neonism.

Au prochaine, mon amour

Groove, epicità, cazzoneria! Ma soprattutto una prova che viaggia alta e risulta così ricca da essere irriassumibile.

Insomma, togliendo Bububu Bad Beuys (l’avessero tolta pure loro!) l’unico difetto che si può rimproverare a Kosmopolis II è quello di essere privo del caratteristico sax solefaldiano. Ma alla luce di quanto sentito, poco importa. Gli Sternenhoch dell’avanguardia metallica riportano in auge quell’attitudine che credevamo da tempo perduta e regalano un disco che parimenti non può che risultare una delizia, originale e finanche innovativa.

Molti troveranno ben poche difficoltà nell’assimilare le linee melodiche dell’album, in assoluto il più semplice del gruppo, a dispetto di una inaudita complessità strutturale varietà sonora – neppure Neonism arrivava a tanto. Pochi però saranno in grado di assimilare la lezione del Sol che Tramonta per quanto riguarda la creazione di musica, e forse è un bene. Sono poche le band che hanno l’onore di morire irreplicate! E nel prender commiato da questa ennesima espressione del genio scandinavo, non possiamo che tornare al ritornello di World Music with black Edges per chiuderlo con il secondo verso,

Kosmopolis, I have my eyes on you!

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