Recensione: Clock Unwound

Di Roberto Gelmi - 15 Agosto 2017 - 10:00
Clock Unwound
Band: Gentle Knife
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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85

Sadness whispers as I rise with morning light disguised
Secrets lying in bed, asleep and by my side
I walk on burning coals in hopes of cheating time
Clockwork gears turn to rust in pools of soured wine

(prima strofa di “Clock Unwound”)

 

I Gentle Knife sono una band norvegese con una line-up che definire unica è riduttivo: tra chitarristi, vocalist, tastiere e strumenti a fiato si arriva a ben undici componenti. Due anni dopo il disco di debutto e self-titled, propongono al pubblico Clock Unwound, album curato nei minimi dettagli, a partire ad un artwork originale e testi che scavano nel profondo di temi mesti come amori non a lieto fine e attese inutili, riscattati dalla la speranza ultima di una bellezza comunque vissuta. La scaletta è corta, i brani hanno una durata proggish, le sonorità sanno di anni Settanta, ma senza risultare derivative.

Dopo un intro suggestivo, inizia battagliera la lunga titletrack, con una ricchezza di soluzioni nell’arrangiamento da fare invidia a band più blasonate. Spicca un lungo assolo di sintetizzatore degno degli Ayreon. Impossibile contare tutti I cambi di atmosfera e di ritmo che si susseguono, si arriva sul finire del quarto d’ora di composizione cullati da una sezione semiacustica alla Camel, con tanto di violoncello, seguita da un nuovo risveglio del synth che ricorda i Pallas questa volta. Si vorrebbe che la traccia continuasse ancora, ma la seguente “Fade Away” è comunque un bel pezzo, non propriamente una ballad, ma ricco di momenti suadenti che hanno fatto proprio il dettato di The Flower Kings e The Tangent.
Smother” solleva un polverone improvviso, con un avvio asptro e una voce femminile ad aprire le danze. Stupiscono gl’inserti di flauto, sax e trombe, la melodia portante è una delizia, l’uso del synth di nuovo magnetico; sul finire del quarto minuto si passa quasi su lidi jazzy senza colpo ferire, uno dei momenti più belli dell’album, complici anche delle line di basso avvolgenti. Si respira tutta l’insania prog. che fa di questo genere musicale il naturale playground delle menti creative. Per trovare un difetto si potrebbe chiamare in causa il duetto vocale, non proprio dei più incisivi.
Le chitarre (elettriche e semiacustiche) predominano in “Plans Askew”, ma non mancano di certo i fiati e gli ottoni a rendere il tutto più bucolico. Tra Mike Oldfield e Yes, la canzone si ascolta che è un piacere e, scusate se è poco, non annoiare con una durata che si aggira attorno ai dieci minuti è notevole di suo. Il platter ci abbandona con la conclusiva “Resignation”. Avvio sornione, vicino ai Goblin, poi una voce recitante monocorde e bigia. A metà minutaggio le tinte, da tirate e oscure (quasi cacofoniche) sembrano risolversi in una brusca accelerata rock; invece, dopo minuti interminabili di un crescendo al cardiopalmo, tutto si acquieta di nuovo su tracciati ondivaghi e meditativi. In definitiva una composizione sui generis che stona con il resto dei brani in scaletta (non con il concpet in sé) ma che proprio nella sua peregrina peculiarità resta impressa nella mente.

Che dire dell’ora di progressive appena ascoltato? I Gentle Knife ci sanno fare, bisogna migliorare nel comparto vocale, ma a oggi non sono inferiori ai colleghi svedesi in quanto a creatività. Clock Unwound è un album come non se ne sentono molti al giorno d’oggi, coraggioso, originale, longevo. Diamo atto al gruppo norvegese di essere tra gli alfieri, nel loro freddo Paese, del più sano prog. rock visionario.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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