Recensione: Jumalten Aika

Di Tiziano Marasco - 8 Aprile 2016 - 11:58
Jumalten Aika
Band: Moonsorrow
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2016
Nazione:
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76

Ed eccoci qui, dopo cinque anni di attesa, innanzi ad una delle band più enigmatiche, affascinanti ed inafferrabili che il metal abbia mai avuto. Il monicker è inglese, ma la band non ha scritto un solo verso nell’idioma d’Albione, preferendogli quello della propria terra natale, la terra dei mille laghi. Una band che ha tutti i crismi dell’ostico ed elitario e forse proprio per questo è divenuta un culto, amata da moltissimi adepti del viking in giro per il mondo. Escludendo la lingua infatti, le composizioni dei nostri sono opprimente lunghe per il genere. Spesso oltrepassano i dieci minuti minuti, alle volte i quindici, ogni tanto i venti, una volta hanno toccato la mezz’ora.

Insomma, quando arrivano i Moonsorrow, l’universo estremo e filoscandinavo si ferma, trattiene il fiato, preda di domande e attese. Saranno riusciti a ripetersi? A far di meglio? Ci strapperanno il cuore ancora? E soprattutto, la signora Sorvali avrà un nuovo mezzo di locomozione?

Bando alle ciance, è Jumalten Aika, il tempo degli dei, il settimo disco dei Moonsorrow.

Un disco di cinque tracce per sessantasette minuti, come da tradizione per i nostri, anticipato dalla meno breve del lotto, Suden Tunti.

Suden, il lupo. E già prima di sentirla la mente corre a Suden Uni, primo album dei nostri. È forse un caso? Forse lo è, perché di lupi nella tradizione pagano-vikinga si sprecano. E forse no, perché i riff della canzone riportano a quelli dell’album, e sono un buon viatico per la scoperta del disco.

Un disco in cui i Moonsorrow si svestono per gran parte delle orchestrazioni pompose che grandi fecero Raunioilla o Huuto, proponendo una musica decisamente old school, da viking novantiano, sincero, brullo e diretto come la tundra spazzata dal vento. Suden tunti è assoluto vertice di questa nuova direzione, un pezzo grezzo, veloce e diretto a dispetto dei suoi sette minuti, ma anche i primi due brani del lotto, la Title track e Ruttolehto confermano la tendenza. 

Qui tuttavia, al di fuori di lunghe introduzioni soffuse, emerge ancora la grandiosa decadenza dei finlandesi. Lo spoglio gelo che permea le tracce ha da tappeto su cui si levano maestosi, quasi languidi i ritmi lenti e i riff trascinati tipici dei nostri. Salgono in cattedra spesso le chitarre, che spezzano l’incedere granitico, alle volte, con brutali accelerazioni da black metal classico, per un effetto che non è molto distante dai momenti trucidi di un Verisäket o Tulimyrsky.

Nella seconda metà del disco, vale a dire Mimisbrunn e Ihmisen aika (Kumarrus Pimeyteen), 31 minuti e 55 secondi assieme, il disco acquista varietà, compaiono con più decisione inserti folk. Riappaiono arie vagamente eteree, riaffiorano riff di chitarra e flauti. Ed è qui che veramente si ritorna alle origini, a Suden Uni e Voimasta Ja Kunniasta, per quelli che sono a tutti gli effetti, momenti di ottimo viking. Ancora suoni grezzi, mischiati a sottesti di dolce malinconia e arpeggi acustici, qui torna prepotente il contrasto di suoni e di ritmi che ha reso grande questa band fin dai suoi primi passi.

I Moonsorrow sostanzialmente confezionano l’ennesimo ottimo disco, si confermano songwriter di razza e artisti sinceri, pure non si può negare che, sotto certi aspetti, Jumalten Aika mostri un po’ la corda. I pezzi sono buoni, ma non salgono ai livelli di quelli citati in apertura (non che sia facile). E non si tratta di guardare a un passato glorioso, perché Huuto è di soli quattro anni fa. Di fatto, Jumalten Aika lascia un po’ di amaro in bocca, che è ben diverso dalla malinconia lacerante che ha sempre permeato i finlandesi. Si sa, le prove dei finnici hanno sempre avuto bisogno di ripetuti ascolti, escludendo Kivenkantaja – dal primo riff fu amore, e mai la fiamma si spense. Qui però sembra muoversi tutto su binari ben marcati, verso una meta già nota e chiara. E un po’ per l’old school, un po’ per questa sensazione di calcolata concretezza, Jumalten Aika ricorda, oltre che gli albori dei nostri, anche Tulimyrsky (almeno secondo un sentore personale).  La sensazione ultima è che quest’album, pur senza avere pecche, non aggiunga granché al percorso di una band straordinaria, che non faccia passi in avanti, che, in ultima analisi, prenda tempo in attesa dell’ennesima sorpresa. Stiamo a vedere e intanto godiamoci questo gustoso intermezzo.

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