Recensione: Kivenkantaja

Di Daniele Balestrieri - 16 Luglio 2004 - 0:00
Kivenkantaja
Band: Moonsorrow
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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97

Dopo lunghe vicissitudini finalmente Truemetal ha l’onore di accogliere Kivenkantaja – l’ultima fatica dei Moonsorrow – tra le proprie file.
E che onore, direi. Fin dal primo secondo di ascolto si capisce infatti che questo non è un album comune. Le orecchie più allenate noteranno nel flebile sussurro del canto gregoriano e nel perfetto riverbero della campanella che aprono “Rauniolla” una produzione cristallina, eccellente, che lascia presagire un certo investimento da parte della Spikefarm su questi Moonsorrow, band rivelazione del Black Viking Folk finnico e attualmente una delle stelle più splendenti del metal scandinavo di nuova generazione. Partiti dal nulla con l’eccellente demo “Metsä”, che mise immediatamente in campo un gusto spiccatamente Bathoriano per i rumori e la teatralità (emblematica “Jo Pimeys Saa”, una vera e propria scommessa per una band emergente che decise di sacrificare un terzo del proprio demo inserendo una traccia fatta unicamente di rumori), i Moonsorrow hanno prodotto tre autentiche perle. Già al tempo di Voimasta ja Kunniasta, che ha scatenato uno dei loro cavalli di battaglia più famosi (Tyven + Sankarihauta) e ha personalizzato e definito il loro sound, si sapeva che prima o poi avrebbero prodotto l’album che avrebbe fatto tremare il metal scandinavo..

Solo che non ci si aspettava che sarebbe avvenuto così presto. Kivenkantaja (=il portatore di pietre) realizza il sogno dei cugini Sorvali (Henri – chitarrista e membro dei Finntroll – e Ville – cantante) di piazzare sul mercato uno dei mostri più acclamati, e per certi versi controversi, del 2003, un album che alla sua uscita ha visto il delirio di alcune frangie di appassionati unirsi agli sguardi di sufficienza di altri appassionati che non sono riusciti a leggere in profondità le decine di sfaccettature presenti in un solo, piccolo CD iridescente.

Già, perché l’offesa più grande che si può mai fare a Kivenkantaja è quella dell’unico ascolto. Posso dirlo con cognizione di causa, perché anche io sono colpevole di tale misfatto e me ne vergogno. Acquistatolo poco dopo la sua uscita, ascoltai questo album insieme a Voimasta ja Kunniasta. Entrambi sono due album impegnativi, e non riuscii a dedicargli l’attenzione necessaria, diviso com’ero tra canzoni imponenti di una lunghezza per lo più spropositata (Sankarihauta, Raunioilla) e riff ipnotizzanti, di classica scuola scandinava. Dopo qualche ascolto rimasi confuso, e accantonai entrambi i CD etichettandoli come “belli ma confusi”. Tornai sui miei passi solo pochi mesi fa, a causa del DVD bonus contenuto in Suden Uni. Mi colpì molto il video di Jumalten Kaupunki, e questa reazione mi fornì un appiglio a cui far riferimento per iniziare ad apprezzare Kivenkantaja. Da lì è stato per me un rincorrersi di uno stupore dietro l’altro: lentamente si sono dischiuse canzoni di una nobiltà, bellezza, varietà, precisione, epicità e profondità con pochi eguali, il tutto in un solo album che ha avuto appena un decimo del successo che meritava.

Kivenkantaja è un album molto diverso da Voimasta ja Kunniasta: la sua rigida copertina nasconde un ricettacolo di esperimenti musicali perfettamente riusciti, che si snodano in un’epopea di sei lunghissimi capitoli che scavano nell’anima e si nutrono delle sensazioni generate dall’ottimo connubio tra la musica e i testi assolutamente sorprendenti.
Testi in finlandese, ovviamente. ma con una sorpresa: esattamente come in Voimasta ja Kunniasta, in Kivenkantaja sono interamente tradotti in inglese, lasciando trasparire una poesia, una complicazione e un uso della lingua davvero fuori dal comune. Ogni canzone traspira “epicità” da ogni poro, frantumandone però gli stilemi classici insegnatici dai maestri degli anni ’80. Pochi si rendono conto infatti che i Moonsorrow fanno parte di quel giovanissmo movimento scandinavo che sta lentamente riscrivendo i canoni dei generi musciali più classici, un movimento in pieno sviluppo che sono sicuro verrà ricordato e riconosciuto solo tra molti anni, quando i puristi intransigenti degli anni ’80 si accorgeranno che il death americano è diventato un ibrido americo-svedese, che l’epic è diventato un movimento americo-finnico, e che il black sta inquinando pesantemente con le sue sonorità spiccatamente europee tutte le frange estremiste americane, ora sempre più prone al “dannato” piuttosto che al brutale del grindcore e del brutal.

Kivenkantaja è un CD che andrebbe riportato sui libri di storia della musica, e che andrebbe rappresentato nei teatri, per quanto è potente e variopinto. Purtroppo, per una serie di motivi, il mondo non è ancora pronto ad affrontare artisti tanto giovani ed eclettici, e per questo bisogna ancora parlare di fenomeni di nicchia, per quanto artisticamente notevoli.

Capitolo I: Raunioilla (Alle Rovine)
Un macabro scampanare rompe la gelida aria del mattino, mentre in lontananza riecheggiano i canti gregoriani di un monastero. Dopo una manciata di secondi scatta un chiavistello, e il grasso suono dei cori clericali si mescola alle corpose chitarre dei Moonsorrow, che già accordano una delle costanti dell’album – la tastiera di gran gusto musicale orchestrata dal sapiente Henri Sorvali, eccellente arrangiatore che abbandona il suo strumento solo in occasione dei live, affidandolo al misterioso “Lord Eurén”. La canzone trascorre con passi leggeri ma possenti, mentre gli onnipresenti cori maschili modellano strutture epiche di matrice Bathoriana, la quale si manifesta in un riff preso direttamente da Twilight of the Gods (06:26), palese omaggio a colui che probabilmente è stato uno dei maggiori ispiratori della band finnica. Grande emozione scaturisce durante la canzone, mentre il protagonista vede gli antichi dei tramontare all’ombra della grande croce bianca, fine indegna quanto un branco di lupi ammansito da un pastore. Tredici minuti di pura passione, in cui i riff (in continua ripetizione come comandato dalla scuola finnica) si accavallano l’un l’altro piegati al solo scopo di creare atmosfera, mentre le campane continuano a separare le chitarre dalle tastiere, le voci dai cori, finché il diciottesimo rintocco non apre, senza alcuna pausa, un profondo ruggito: le rovine sono state catturate, la battaglia è terminata.

Capitolo II: Unohduksen Lapsi (I Figli dell’Oblio)
La voce “telefonata” di Ville si impadronisce di questa canzone, forse la meno caratteristica dell’album. La teatralità inaugurata da Raunioilla continua in questo brano che sicuramente sa di già sentito, con il suo cantato timoroso, le sue meolodie agghiaccianti, dalle quali emerge anche la voce sgraziata di Henri Sorvali – già ascoltata non senza un certo divertimento in Sankarihauta. Eccellente ancora una volta l’arrangiamento, con cori e voci che si rincorrono, e una certa velocità nelle chitarre, sempre volte alla creazione di una stupefacente aura di epicità mentre il nostro protagonista, macchiato di sangue, spada in mano, si avventura nelle montagne, mentre il fiato gli si ghiaccia in gola, alla ricerca della salvezza del suo popolo e della sua anima. Giunto a un passo di montagna, il bagliore della neve si affievolisce per un attimo: la ricerca è conclusa, e il vento trascina con il suo ululare la fulgida visione della Città degli Dei.

Capitolo III: Jumalten Kaupunki (La Città degli Dei)
Per mille anni abbiamo vagabondato, alla ricerca delle nostre genti dimenticate, e finalmente! Dinnanzi a noi si distende la città degli déi. Jumalten Kaupunki segna il momento in cui il CD inizia la propria scalata verso l’alto, una canzone sorprendente, l’inizio delle quattro canzoni più epiche ascoltate di qui a molti anni. Due chitarre matellanti, un basso drammatico, un cantato teatrale, da palcoscenico, un imponente coro maschile innalzano l’ascoltatore verso vette emozionali raramente raggiunte dalla musica contemporanea, grazie all’aiuto di melodie pompose, significative, orgogliose e degne di raccontare le prodezze di un piccolo villaggio che combatte contro le forze cristiane, mentre gli strumenti si snodano come le vie tortuose della città dai tetti d’oro. Dalla descrizione può sembrare un epic in stile Blind Guardian, in realtà il feeling è molto diverso, proprio grazie alla scuola finnica dalla quale proviene e al loro modo di vedere la musica, molto diverso anche solo da quello dei paesi vicini. Senza troppe frivolezze, l’epic drammatico e teatrale di Jumalten Kaupunki tocca le corde giuste senza perdersi in chiacchiere. Terminata ferocemente la canzone, inizia un interludio legato sempre alla terza traccia, di nome Tuhatvuotinen Perinto (L’alleanza dei 1000 anni) – altri 3 minuti che portano questa canzone a un gran totale di 10 minuti e 41 secondi. Segue il primo stacco dell’album, e inizia così la title track: Kivenkantaja.

Capitolo IV: Kivenkantaja (Il Portatore di Pietre)
La drammaticità aleggia compiendo lente spirali fin dai primi secondi della canzone: una marziale chitarra acustica apre la strada a possenti chitarre, e Ville intona immediatamente l’inizio della terribile storia del vecchio portatore di pietre che assiste ancora una volta alla distruzione del suo popolo, mentre i capi delle fazioni in guerra discutono, urlano e stridono tra di loro, e la sua esperessiva voce tenta di incanalarsi ora nella disperazione del vecchio che nessuno ascolta, ora nel vigore del popolo in piena battaglia, ora nell’orrore dello spettacolo che si presenta dinnanzi agli occhi di ogni essere vivente. L’intero brano di Kivenkantaja è diviso in grandi tronconi, necessari per lo sviluppo della storia, e ogni troncone vanta riff significativi, profondi, uniti a un’apertura strumentale e drammatica che – anche senza conoscere la trama – lascia percepire lo sviluppo delle vicende all’interno delle strofe grazie alla teatralità che, non mi stancherò mai di dirlo, riempie questo CD donandogli uno spessore davvero eccezionale. Il tutto ovviamente condito dalla sapiente tastiera di Henri che risponde ora lenta e cadenzata, ora veloce e aggressiva, agli stimoli delle chitarre, che seguono il flusso melodico e corale del brano, fino a cadere nell’ultima pausa del CD, che apre l’ennesimo capitolo di quest’opera epica.

Capitolo V: Tuulen Tytar / Soturin Tie (La Figlia del Vento / La Via del Guerriero)
Cambia di colpo la scena: siamo in un villaggio medievale, e le chitarre black/viking e la batteria lasciano il posto a violini, trombette, tamburelli, flauti e quanto di meglio ci può offrire la strumentistica folk e le tastiere made in Moonsorrow. Vi ritroverete di colpo in una fetida bettola alto-medievale, accompagnati da battute intelligenti, ripetizioni ad hoc e da un uso degli strumenti particolarmente brillante. Ai sei minuti un breve parlato introduce le poche, significative strofe della canzone finché, come fosse un gioco, il brano non viene gettato nel mistero e nella drammaticità più coinvolgente, mentre lo stesso riff cala di tonalità a ogni ripetizione, fino a quasi sparire dallo spettro dell’udibile, finché nel pieno del pathos l’ennesimo coro non avvolge l’aria, riportando la canzone nei canoni epici abbandonati due minuti prima. Mentre la festa termina, e la notte conquista la scena, un timpano rimane, solenne, a chiudere la traccia e ad aprire il capitolo conclusivo.

Capitolo VI: Matkan Lopussa (Alla fine del Viaggio)
Un capitolo anche questo pregno di drammaticità, un capitolo che ai primi ascolti battezzai “il Natale dei Moonsorrow”. Una canzone che agli strumenti tradizionali preferisce le voci di un coro misto, maschile e femminile, teatralmente presidiato dall’ottima Petra Lindberg. La voce femminile calda e avvolgente, il coro monumentale e gli strumenti minimalisti forniscono ancora una volta una atmosfera inattesa, a metà tra l’epico spinto e l’intimo, una canzone in cui l’anima può trovare riparo, una canzone che ascoltata nel silenzio delle prime luci dell’alba lascia davvero il segno, mentre scivola nell’oscurità minuto dopo minuto, fino ad abbracciare l’ultimo barlume che si spegne, austero, a 4 minuti e 36 secondi dall’inizio.

Così termina Kivenkantaja, dopo una galoppata tra il viking, l’epic, il folk e il black. Ogni canzone fa storia a sé per identità musicale, sentimenti suscitati e aspetto artistico. Questo lavoro, opportunamente ascoltato e giudicato, desta sicuramente meraviglia, anche se continuerà a venire snobbato dai più “bacchettoni” semplicemente per l’ambiente da cui proviene e per il particolare approccio leggero, scherzoso e giovane che ha questa band. Ci sarebbe da riempire libri, tuttavia credo di aver detto a sufficienza. Non vi perdete questo album, se amate la musica ispirata, coinvolgente e ottimamente suonata. Una delle uscite più luminose del 2003 insieme a Hin Vordende Sog og Sø degli Asmegin, e uno dei miei album preferiti – di sempre. E questo è già tutto dire. P.S.
Una curiosità sulla copertina: la pietra della foto non è un dipinto ma esiste sul serio, e fu comprata dalla band in occasione dell’album. La pietra pesa un paio di quintali, e fu trascinata nella foresta utilizzando la sedia a rotelle della madre di Henri Sorvali, la quale si ruppe di colpo, lasciando la pietra inchiodata in terra. Non potendola più spostare, decisero di dipingerla in loco e fotografarla. Tornati alla Spikefarm, furono costretti da un produttore infuriato a ritornare nella foresta a riprendere la pietra, costata diverse centinaia di euro. La pietra fu trascinata via, ma nel processo si spezzò in due parti. Il risultato finale fu che la pietra ora si trova da qualche parte all’interno della Spikefarm… e che i Moonsorrow dovettero ricomprare la sedia a rotelle alla signora Sorvali.

TRACKLIST:
1. Rauniolla
2. Unohduksen Lapsi
3. Jumalten Kaupunki / Tuhatvuotinen Perinto
4. Kivenkantaja
5. Tuulen Tytar / Soturin Tie
6. Matkan Lopussa

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