Recensione: Forbidden Morals

Di Stefano Usardi - 3 Ottobre 2025 - 10:00
Forbidden Morals
Band: Void
Genere: Thrash 
Anno: 2025
Nazione:
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80

Beh, inutile negarlo: questo è indubbiamente un gran bel periodo per il thrash metal: dopo il ritorno in grande stile dei Violator (ve ne ho parlato qui) e i lavori di Ravager, Terrordome e Mortal Scepter, ci si mettono anche i Void a movimentare ulteriormente un autunno ricco di sorprese. “Forbidden Morals”, secondo lavoro del quintetto della Louisiana, sta già facendo parlare abbondantemente di sé grazie al piglio propositivo e una ricetta ricca, d’ampio spettro, che non esita a screziare le composizioni con atmosfere teatrali ed orrifiche tanto care al Re Diamante. La matrice primaria dei nostri resta protervamente ancorata ad un thrash metal piuttosto ortodosso, che garantisce chitarre croccanti e velocità elevate, ma al tempo stesso si diverte a pescare a piene mani dall’heavy classico e condisce il tutto con melodie maschie e una foga esecutiva che scalda il cuore. La ciliegina sulla torta è data da una scrittura densa, opulenta e corposa, che beneficia degli ottimi intrecci di chitarre per erigere architetture sonore complesse senza mai scadere nel tedioso, e che grazie alla carica propulsiva del quintetto vengono assimilate senza appesantire. “Forbidden Morals” avanza arrogante per i suoi tre quarti d’ora, dispensando fendenti e randellate con fare strafottente ma senza dimenticarsi di offrire punti di vista differenti, forte di una tecnica indubbia, un tiro formidabile e di qualità compositive di tutto rispetto. I brani sono energici ma non si limitano alla semplice elargizione di mazzate: ecco quindi che, di tanto in tanto, i nostri rallentano per indulgere in una certa compattezza dal retrogusto heavy o tingono le composizioni di atmosfere cupe, minacciose, che mettono in mostra un’insospettabile pienezza sonora che dona loro un respiro immersivo ed una profondità inaspettata.

La melodia sinistra e la voce minacciosa di “A Curse” aprono il lavoro con una nota orrifica, cedendo presto il passo alla title track. “Forbidden Morals” incede come una versione energizzata di certe opere dei Mercyful Fate, sostenendo le melodie sulfuree di cui è pregna con riff muscolari e una sezione ritmica quadrata e volitiva, mentre Jackson Davenport inizia a frustare l’ascoltatore con la sua voce irosa tra uno svolazzo più istrionico e l’altro. “Gateways of Stone”, dopo un inizio dal profumo teatrale e mefistofelico, inizia a pestare duro alzando al massimo i giri del motore e concedendo respiro solo durante gli sporadici squarci più solenni. La densità del pezzo si mantiene comunque piuttosto alta grazie al gran lavoro della coppia d’asce e di una sezione ritmica furente, e l’arpeggio sinistro in chiusura arriva come una ventata d’aria fresca a concedere il giusto riposo prima di ricominciare da capo con la veemente “Judas Cradle”. Qui i nostri mescolano rasoiate feroci a rallentamenti più tempestosi, legando tutto con melodie dal piglio adrenalinico. La pausa centrale instilla una nota di solennità, sempre velata di minaccia, caricandosi sempre più fino alla chiusura nuovamente cupa. La breve “Nine Bloods Moon” mantiene questo spirito torvo, veicolandolo però attraverso ritmi pulsanti e chitarre sempre sul chi vive, che passano da fraseggi inquieti a rapidi fendenti più imponenti, mentre “Valeria” è un intermezzo acustico pacato e solenne screziato di tanto in tanto da passaggi ora esotici ed ora sinistri. Si torna a fare sul serio con “Apparition”, che di colpo rimette tutti in riga con i suoi tempi scanditi e le chitarre massicce: il taglio cupo e sanguigno del pezzo viene inframmezzato da rarissimi svolazzi meno opprimenti e un intermezzo centrale più isterico, chiudendosi poi con un assolo sfumato dall’alto tasso di pathos. Un arpeggio compassato e languido apre “By Silver Light”, power ballatona d’ordinanza che gioca con tutti gli stilemi del caso aggiungendo, qua e là, qualche ricamo più esotico, mentre con la seguente “Return of the Phantom” si torna sull’attenti. Il pezzo si districa su un tappeto ritmico nervoso ed inquieto, mentre le chitarre intessono trame cupe, spesse, mescolando rasoiate corpose ad acuti stridenti. L’intermezzo che cita la celeberrima melodia di Loyd Webber insinua nel pezzo una nota maligna, che avvampa di aggressività prima di tornare al roccioso nervosismo dell’apertura. Siamo ai botti finali, e i Void lo declamano con la lunga suite “Beneath… Lives the Impaler”, nei cui undici minuti scarsi decidono di infilare tutte le loro caratteristiche. Dal riff frenetico iniziale per far salire l’adrenalina alla chiusura sfumata, il pezzo è un lungo esercizio di stile in cui far coesistere le varie anime del gruppo: ritmiche frastagliate, riff corposi, svolazzi esotici, intermezzi sinistri, feroci sfuriate e rallentamenti minacciosi. I nostri creano un moto ondoso in continua evoluzione, dal tiro quasi narrativo, intervenendo sui diversi umori che profumano il brano e tornando ripetutamente sui propri passi, per togliere punti di riferimento all’ascoltatore ma senza lasciarlo del tutto privo di bussola. Nonostante la lunghezza forse eccessiva, il pezzo scorre bene e non annoia, e conclude in modo degno un lavoro adrenalinico, istrionico e accattivante ma non ruffiano. “Forbidden Morals” è decisamente un ottimo lavoro e si candida a far parte dei miei ascolti fissi del prossimo futuro grazie a qualità compositive degne di menzione, un tiro eccellente e una matrice sonora che dietro la sua opulenza non cela sterili manierismi ma passione autentica e contagiosa.

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