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Helloween: quarant’anni di storia – part III: 2005 – 2015

Di Marco Donè - 15 Novembre 2025 - 7:00
Helloween: quarant’anni di storia – part III: 2005 – 2015

Continuiamo a ripercorrere la carriera degli Helloween, per celebrare il quarantesimo anniversario della formazione di Amburgo. Nei capitoli iniziali (parte I e parte II, n.d.a.) abbiamo esplorato i primi vent’anni di storia delle Zucche, fermandoci al 2005. Proseguiamo il nostro speciale con il terzo episodio, che ci condurrà a rivivere un altro decennio della storia degli Helloween, l’ultimo con la formazione a cinque elementi. Ci fermeremo quindi al 2015. Ripartiamo con il nostro racconto da dove ci eravamo interrotti, dal 2005.

Con “Keeper of the Seven Keys – The Legacy”, gli Helloween tornarono alla ribalta, con prepotenza. Erano riusciti a riconquistare l’attenzione e l’interesse di fan e appassionati. Non c’è quindi da meravigliarsi se il “Keeper of the Seven Keys – The Legacy World Tour 2005/06” si rivelò un autentico successo. Le Zucche poterono esibirsi in live club e palazzetti gremiti, frutto di una richiesta incessante, che li portò a mettere a segno più di novanta date. Il risultato fu un nuovo live album, registrato a San Paolo, in Brasile, davanti a seimila fan scatenati. Il disco dal vivo venne pubblicato in due versioni distinte: un doppio CD, intitolato “Live in Sao Paulo”, e un’edizione video, caratterizzata da due DVD, intitolata “Live on 3 Continents”. Quest’ultimo è disponibile anche in una tiratura limitata, racchiusa in un box set contenente sia i due CD che i due DVD. Per celebrare quel trionfale tour, Weikath, Deris e compagni vollero immortalare una data per ciascun continente toccato. Furono così riprese le serate di Sofia, per l’Europa, di Tokyo e Kawasaki, per l’Asia, e San Paolo, appunto, per le Americhe. Alcune tracce del DVD permettono infatti di selezionare quale versione riprodurre, scegliendo tra l’ufficiale tenutasi a San Paolo o, in alternativa, una delle riprese effettuate a Sofia o nel Paese del Sol Levante. “Live on 3 Continents” mette in luce una formazione in forma strepitosa. Basti pensare che in alcune date di quel tour, gli Helloween proposero nella stessa serata ‘The King for a 1000 Years’, ‘Keeper of the Seven Keys’ e ‘Occasion Avenue’. Ma oltre alla prova stellare dei singoli, “Live on 3 Continents” evidenzia il clima affiatato che caratterizza i “nuovi” Helloween. Gli spiritosissimi sketch inseriti durante gli assoli di batteria e chitarra sottolineano proprio questo aspetto. Un elemento che trova conferma nelle interviste dell’epoca. In più di un’occasione, infatti, Weikath sottolineò come la nuova line-up avesse riportato in auge lo spirito primigenio della band. In poche parole, insomma, divertimento, entusiasmo e tanta creatività.

 

La copertina di “Live on 3 Continents”

 

Con queste premesse, le aspettative su un nuovo album iniziarono a essere molto elevate. I fan ambivano a un platter di livello assoluto, che potesse competere con i fasti del passato. Un lavoro che fosse in grado di garantire lo stesso livello qualitativo in tutta la sua durata, eliminando quei passaggi sottotono presenti nelle ultime due fatiche. Le pressioni, insomma, iniziavano a farsi sentire. E gli Helloween, come dimostrato ampiamente nella loro carriera, se messi alle strette difficilmente sbagliano il colpo. Il dodicesimo full length delle Zucche si rivelò infatti un centro clamoroso. L’album, intitolato “Gambling with the Devil”, venne pubblicato via SPV GmbH Steamhammer a ottobre 2007. Un titolo carico di significato che, all’epoca, Deris spiegò con un pizzico di ironia. Il cantante disse che, almeno una volta, ognuno di noi ha giocato d’azzardo con il diavolo. Portò l’esempio di uomo sposato che, pur amando la propria moglie, continua a fare sesso con altre donne. Il marito decide di rischiare di mandare tutto all’aria per il semplice gusto di una giocata, come se fosse alla roulette. Fece riferimento anche al mondo politico e alla scienza, mostrando come certe decisioni avventate non riguardino solo la sfera personale. Sotto sotto, però, il significato del titolo va forse cercato all’interno degli Helloween stessi. La carriera delle Zucche d’Amburgo, d’altronde, è stata un continuo gioco d’azzardo con il diavolo, con il rischio di perdere tutto. La band è comunque riuscita a restare in piedi e dopo ogni mossa rischiosa ha saputo rilanciarsi alla grande. “Gambling with the Devil” ne è l’ennesimo esempio. L’album risulta ispiratissimo e rende l’immagine di una formazione coesa, affiatata e, soprattutto, ambiziosa. Compaiono infatti delle nuove sperimentazioni in casa Helloween, con soluzioni atipiche per la compagine di Weikath. Per certi aspetti, se “Keeper of the Seven Keys – The Legacy” aveva rispolverato l’atmosfera dei primi due dischi con Deris alla voce, “Gambling with the Devil” sembra recuperare lo spirito di “Better than Raw”. Il nuovo platter, in questo modo, risulta diretto, aggressivo, melodico, tecnico, sorretto da dei suoni curati, che ne rispecchiano il mood e donano continuità con il lavoro precedente. Viene infatti confermato il connubio con Charlie Bauerfeind in cabina di regia e l’importanza dei Mi Sueno Studio per gli equilibri della band. Squadra che vince, non si cambia!

 

La copertina di “Gambling with the Devil”

 

“Gambling with the Devil” si apre con l’intro ‘Crack the Riddle’, che vede la presenza di Biff Byford come voce narrante. Dopo un inizio spettrale e misterioso, in cui il vecchio Biff sembra quasi una sorta di demone tentatore, il disco cambia repentinamente atmosfera. ‘Kill It’ si infrange sull’ignaro ascoltatore in tutta la sua violenza, riportando alla mente l’impatto di una certa ‘Push’. ‘Kill It’ è un autentico assalto frontale, in cui compaiono alcune soluzioni inusuali per gli Helloween, in particolare nelle parti di batteria. Il ritornello, completamente in your face, descrive alla perfezione quanto appena sottolineato. Al di là dell’aggressività, ‘Kill It’ sorprende per come gli Helloween risultino coesi: sembrano suonare insieme da una vita. Una sensazione avvalorata dalla successiva ‘The Saints’. La traccia è la perfetta rappresentazione dello spirito di questa nuova incarnazione degli Helloween. Il pezzo si rivela melodico, veloce, diretto ma, allo stesso tempo, articolato e ricercato, con una cura maniacale per gli arrangiamenti. A fare la voce grossa è Dani Löble, che sforna una prova carica di dinamica, caratterizzata da tantissimi accenti, pronti a valorizzare i vari cambi di tempo. Grosskopf è semplicemente impressionante: riempie ogni spazio, crea groove, piazza le sue caratteristiche scale. Fa letteralmente la differenza. E più passano gli anni, più rimaniamo sorpresi della poca considerazione riservata al buon Markus: a tutti gli effetti uno dei bassisti più sottovalutati della storia del metallo pesante. Continuando la nostra disamina, Gerstner e Weikath sfoggiano una sintonia unica, regalando momenti di classe cristallina. Durante l’assolo, con i fraseggi incrociati delle due chitarre, le Zucche costruiscono una sezione strumentale intricatissima. E se non fosse abbastanza, al resto ci pensa un Deris in stato di grazia, pronto a dare il suo meglio in un ritornello anthemico. Questo è ciò che respiriamo in ‘The Saints’, e questa è l’essenza che contraddistingue “Gambling with the Devil”. L’album scorre con piacere, regalando nuove sfumature ascolto dopo ascolto, una peculiarità dei lavori destinati a durare nel tempo. Spiccano canzoni come la splendida semiballad ‘As Long As I Fall’, con quel ritornello che si stampa in testa in maniera indelebile, accompagnato da un inserto di pianoforte che è pura genialità compositiva. Citiamo la solare ‘Final Fortune’, uno degli assoluti highlight del disco, così come l’aggressiva e veloce ‘Paint a New World’. Il fulcro dell’album ruota però attorno al trittico ‘The Bells of the Seven Hells’, ‘Fallen to Pieces’ e ‘I.M.E.’. Le tracce, scritte da Deris, mescolano alcune sperimentazioni e il lato più classico degli Helloween, inserendo vari passaggi Hard Rock. ‘The Bells of the Seven Hells’ descrive il lato più moderno delle Zucche mentre ‘Fallen to Pieces’ quello più classico, dove troviamo intricati passaggi strumentali. ‘I.M.E.’ è invece il capitolo più Hard Rock. In questi tre pezzi, Deris effettua un’analisi allegorica sul nazismo: affronta la manipolazione delle masse e la dissoluzione dell’identità, fino a descrivere la reazione necessaria per riappropriarsi del proprio sé. Un trittico di elevata caratura artistica, le cui tematiche appaiono estremamente contemporanee. “Gambling with the Devil” si chiude con la divertente ‘Can Do It’, che mette in risalto il lato più giocoso delle Zucche, la veloce e abrasiva ‘Dreambound’, e la spettacolare suite ‘Heaven Tells No Lies’. La canzone finale è una delle vette compositive degli Helloween: un concentrato di classe, ispirazione ed estro.

 

 

“Gambling with the Devil”, insomma, ci regala una band che sembra essere definitivamente risorta dalle proprie difficoltà. Il disco si presenta fresco, vario, caratterizzato da tantissima qualità. La prova dei singoli, come descritto poco sopra, è semplicemente stellare. Su tutti, però, dobbiamo citare Dani Löble, che in questo lavoro mette anima e cuore, può dare libero sfogo alla propria visione artistica. Il batterista diventa in questo modo la spina dorsale dei nuovi Helloween. L’uomo che permette alla band di recuperare quella genialità che ne aveva caratterizzato la carriera nei periodi d’oro. Per certi aspetti, è proprio Löble che permette alle Zucche di affrontare una terza giovinezza. È lui che dà alla band la possibilità di esprimersi di nuovo su livelli tecnico-artistici elevati. Questo aspetto permette al combo tedesco di comporre in totale libertà, senza limiti. Deris può sviscerare tutta la sua genialità e in “Gambling with the Devil” mette a segno ben cinque pezzi: ‘Kill It’, ‘As Long As I Fall’, ‘The Bells of the Seven Hells’, ‘Fallen to Pieces’ e ‘I.M.E.’. Gerstner si rivela sempre più a suo agio nei meccanismi delle Zucche, realizzando ‘Paint a New World’ e ‘Dreambound’ – i cui testi vengono scritti a quattro mani con Weikath. Di Weikath sono la splendida ‘The Saints’ e la divertentissima ‘Can Do It’. Due tracce in cui il marchio del chitarrista d’Amburgo appare ben evidente. In “Gambling with the Devil”, però, in fase compositiva inizia a prendere sempre più autorevolezza Grosskopf, fino a questo momento mai troppo prolifico. Del bassista sono infatti ‘Final Fortune’ e ‘Heaven Tells No Lies’, due dei momenti più elevati del disco, capaci di donare ancora più varietà al processo creativo degli Helloween.

 

 

“Gambling with the Devil” venne accolto positivamente dal mercato. Il full length si piazzò al terzo posto delle classifiche giapponesi, centrò la top 10 in Repubblica Ceca e si confermò in tantissime graduatorie europee. Gli Helloween erano quindi pronti a iniziare una nuova avventura live, per promuovere il dodicesimo platter della propria carriera. Prese così vita l’“Hellish Rock Tour 2007/2008”. Il tour iniziò a novembre 2007 in Europa e, dopo il periodo dei festival estivi, si concluse nelle Americhe, in Messico, a ottobre 2008. Fu un’esperienza molto particolare, visto che ad accompagnare gli Helloween in questo lunghissimo percorso a tappe ci furono i Gamma Ray. Sì, proprio loro, la band dell’ex rivale Kai Hansen. Dopo anni di scontri a distanza, Hansen e Weikath stavano infatti seppellendo l’ascia di guerra, un passo alla volta. Tanto che negli encore finali, durante ‘Future World’ e ‘I Want Out’, sul palco salivano entrambe le band. Hansen e Weikath tornavano così a suonare fianco a fianco, dopo tantissimo tempo. Inutile negare che da quel tour nacquero le prime voci in merito a un’ipotetica reunion. Voci che apparivano remotissime, considerando lo stato di forma degli Helloween. Ma si sa: con il tempo, anche ciò che appare irrealizzabile può diventare realtà. In varie date dell’“Hellish Rock Tour 2007/2008”, inoltre, gli Helloween, forti del consenso raccolto con gli sketch comici del “Keeper of the Seven Keys – The Legacy World Tour 2005/06”, decisero di mettere in piedi un divertentissimo teatrino. Deris, Grosskopf, Gerstner e Löble, agghindati a mo di marionetta, si dilettavano in una spiritosa versione di ‘Smoke on the Water’. Durante il ritornello Weikath saliva sul palco – nella classica tenuta in pelle nera – e sparava a ogni “burattino”. Si rivolgeva poi al pubblico con uno sguardo eloquente, che si può tradurre più o meno così: basta stronzate, è tempo di suonare metal. Epocale!

 

Una foto promozionale dell’epoca

 

Forti del successo raccolto con gli ultimi due lavori, gli Helloween si accasarono presso la major Sony Music. Furono seguiti dalla sezione tedesca, oltre a collaborare con le divisioni specializzate in musica Rock del colosso americano. Si stava inoltre avvicinando il 2010 e per una band che può vantare la propria prima pubblicazione nel 1985, significava raggiungere il traguardo dei venticinque anni di carriera. Un evento speciale, che andava celebrato a dovere. Le Zucche decisero di festeggiare un risultato così importante rilasciando un best of. Una compilation particolare, un po’ fuori dagli schemi – in pieno stile Helloween, insomma. A inizio 2010 venne infatti rilasciato “Unarmed”. Il lavoro si presenta con una veste grafica accattivante, curata dal talentuoso Martin Häusler. “Unarmed” è caratterizzato da undici tracce, pescate tra i più grandi successi degli Helloween. Le canzoni sono però rilette in una chiave diversa, distante anni luce dalle sonorità che hanno sempre caratterizzato Weikath e compagni. Troviamo infatti la divertentissima nuova veste di ‘Dr. Stein’, in cui sassofoni e inserti di pianoforte fanno la voce grossa, donando al brano un taglio decisamente Swing. Passiamo al Symphonic Metal di ‘The Keeper’s Trilogy’, un medley che raggruppa ‘Halloween’, ‘Keeper of the Seven Keys’ e ‘The King for a 1000 Years’. Una composizione realizzata in collaborazione con settanta elementi dell’orchestra sinfonica di Praga. Incontriamo una versione Pop-Rock di ‘Future World’, che non avrebbe sfigurato in “Chameleon”. E come non citare ‘Where the Rain Grows’, che qui si veste di un’anima sdolcinata ed elegante, con un finale dal retrogusto Southern Rock. Impressiona la delicata nuova versione di ‘Eagle Fly Free’ – una ballata che riporta alla mente alcune atmosfere vissute in ‘Windmill’ – con un assolo semplicemente spettacolare. Ogni brano, insomma, subisce una metamorfosi sonora, rivelando una band desiderosa di andare oltre qualsiasi vincolo, di abbattere ogni limite espressivo. A riarrangiare i pezzi ci pensano gli stessi Helloween, aiutati di volta in volta dal conduttore d’orchestra Adam Klemens, dal produttore Andreas Becker e, per i cori, da Carsten Heusmann. In questo modo troviamo una spassosissima versione Swing di ‘Perfect Gentleman’ e una rilettura di ‘I Want Out’ caratterizzata da un coro di voci bianche. Semplicemente splendida la struggente rivisitazione orchestrale e al pianoforte di ‘Forever and One’. Riuscita e carica di pathos anche la riproposizione di ‘If I Could Fly’, che potrebbe essere tranquillamente inserita in qualche rotazione piano bar. Impossibile non citare, poi, la cinematografica nuova veste di ‘A Tale Wasn’t Right’. Alla sua uscita “Unarmed” non venne capito dalla stampa specializzata, che quasi all’unanimità stroncò l’opera. La compilation fu accusata di essere troppo distante dalle sonorità Metal e di dare spazio a delle scelte stilistiche che poco hanno a che fare con gli Helloween. Ma l’intento delle Zucche era proprio questo. “Unarmed”, infatti, è un lavoro dall’elevato valore artistico, che evidenzia tutte le qualità di una formazione capace di esprimersi in ambiti musicali distanti dalla propria comfort zone. Con “Unarmed” gli Helloween dimostrano di essere dei musicisti completi, rompendo gli schemi del Metal più convenzionale, scardinandone i cliché. La cura dei particolari è maniacale: dietro ogni adattamento musicale si cela una ricerca minuziosa per il dettaglio, con il chiaro intento di trasmettere emozioni nuove. Per poter essere compreso e apprezzato, “Unarmed” deve essere approcciato da una mente aperta, priva di paraocchi. Un’opera difficile, quindi, che però seppe conquistare molti appassionati tedeschi, dato che riuscì a entrare nella classifica dei dischi più venduti in Germania.

 

La copertina di “Unarmed”

 

 

 

Ma gli Helloween non si limitarono a lavorare alla compilation celebrativa dei venticinque anni di carriera. Quasi in contemporanea a “Unarmed”, infatti, le Zucche iniziarono a porre le basi per il successore del fortunato “Gambling with the Devil”. Il tredicesimo disco venne pubblicato a ottobre 2010 e si presentò con un titolo assai curioso: “7 Sinners”. Subito dopo l’annuncio del titolo, molti appassionati iniziarono a fantasticare sul futuro della band. Le voci di una possibile reunion con Kiske e Hansen continuavano a susseguirsi e anche il più piccolo dettaglio poteva diventare un indizio. A tranquillizzare le acque ci pensò Michael Weikath. Nelle interviste dell’epoca, il chitarrista sottolineava come i sette peccatori dovessero essere intesi in questo modo: i cinque componenti della band, il protettore delle sette chiavi e il Pumpkinman. Certo che in quel periodo le domande inerenti ai rapporti con i due ex membri iniziavano a essere ficcanti e Weikath si divertiva a dare mezze risposte. Con Hansen, d’altronde, i toni erano distesi. L’“Hellish Rock Tour 2007/2008”, che vide le Zucche e i Gamma Ray condividere il palco, ne è una chiara testimonianza. Se poi aggiungiamo che Kosta Zafiriou, il manager degli Helloween, era anche il batterista degli Unisonic, band in cui militavano Kiske e Hansen… Insomma: fantasticare era davvero molto facile. Questi rumors avrebbero potuto distrarre gli Helloween, portandoli a steccare il colpo. “7 Sinners”, invece, confermò l’ottimo momento della compagine d’Amburgo, ribadendo – se non addirittura superando – la qualità espressa in “Gambling with the Devil”. “7 Sinners” colpisce subito per una veste grafica graffiante, curata dall’ormai fedelissimo Martin Häusler. L’artwork è davvero molto aggressivo e rispecchia alla perfezione le atmosfere che si respirano nell’album. Il tredicesimo full length delle Zucche è infatti più pesante, rabbioso e cupo rispetto al lavoro precedente. E non a caso, all’epoca, in molti vi trovarono dei punti di contatto con “The Dark Ride”. “7 Sinners” può infatti essere descritto come un condensato di aggressività, velocità, melodia e cura nei dettagli. Compaiono varie soluzioni innovative per la formazione di Weikath, in particolare nella sezione ritmica e in alcune parti di batteria. Il singolo ‘Are You Metal’, uno dei pezzi più abrasivi dell’album, descrive alla perfezione quanto sottolineato. Il ritornello e la sezione solistica – con un Dani Löble in formato panzer division – rendono molto bene l’idea. Gli Helloween continuano quindi a percorrere il sentiero che ne ha sempre contraddistinto la carriera: il desiderio di distanziarsi dai cloni, il voler dare libero sfogo al proprio estro artistico, anteporre la personalità alle leggi di mercato. “7 Sinners” è un lavoro che mescola elementi tipici del Power Metal a partiture al passo con i tempi, condendo il tutto con una componente Hard Rock. Un aspetto che rende le composizioni degli Helloween uniche e riconoscibili in mezzo a mille altri gruppi. E non c’è solo la voce di Deris a dettare questa marcata identità. Le melodie, gli intricati passaggi strumentali, la solistica, le parti di basso, le linee di batteria, il lavoro delle chitarre: tutto suona Helloween al cento per cento, anche nelle divagazioni più moderniste. ‘You Stupid Mankind’, il pezzo più pesante e cupo dell’album, rispetta proprio questo trademark. La canzone risulta dannatamente moderna ma, allo stesso tempo, grazie a un ritornello trascinante come pochi, presenta un’anima classica, che rende il brano assimilabile anche ai palati old school.

 

La copertina di “7 Sinners”

 

Come sottolineato, “7 Sinners” evidenzia tonnellate di qualità, personalità e dettagli che si lasciano scoprire un po’ alla volta. Citiamo, ad esempio, la tritaossa ‘Long Live the King’, canzone che Deris dedica a Ronnie James Dio e ai Judas Priest. Il pezzo è un’autentica mazzata di acciaio tonante, con riff taglienti e una sezione ritmica massacrante. Spicca il passaggio presente nella parte centrale del brano, prima dell’assolo, in cui la cassa di Löble segue la linea vocale di Deris. Il risultato è una sezione in your face come poche altre. E la suite finale ‘Far in the Future’? Credo basti dire che, in questo brano, riviviamo lo spirito di una certa ‘Revelation’. Si continua a viaggiare su standard elevati con la cupa ‘My Sacrifice’, che guadagna fascino ascolto dopo ascolto, e con ‘Raise the Noise’, impreziosita da un assolo di flauto traverso: un passaggio inaspettato, ma sorprendentemente efficace. Semplicemente splendida ‘Who Is Mr. Madman?’ – canzone pensata per dare un seguito alla storia di ‘Perfect Gentleman’ – che si rivela uno degli assoluti highlight del disco. La traccia presenta una ritmica trascinante, per poi esplodere in un ritornello che si stampa in testa in maniera indelebile. Per certi aspetti, ‘Who Is Mr. Madman?’ può essere considerata una sorta di ‘Mr. Torture’ versione 2.0, e scusate se è poco. Il lato più classico delle Zucche affiora nella divertentissima ‘The Sage, the Fool, the Sinner’, in ‘World of Fantasy’ e ‘If a Mountain Could Talk’. Queste ultime si lasciano cantare già dal primo ascolto e rientrano di diritto tra i momenti più elevati di “7 Sinners”. Ecco, se proprio volessimo muovere una critica all’album, dovremmo forse citare la ballad ‘The Smile of the Sun’. La canzone è sicuramente ben strutturata ma risulta uno scalino sotto rispetto alla qualità a cui gli Helloween ci hanno abituato nelle ballate. Un peccato veniale, che non inficia assolutamente il valore di un disco che si lascia assaporare tutto d’un fiato.

 

 

Molte sono le penne che contribuiscono a creare l’anima di “7 Sinners”. Deris fa la voce grossa, componendo ben cinque tracce: ‘Where the Sinners Go, ‘Are You Metal’, ‘Long Live the King’, ‘The Smile of the Sun’, ‘Far in the Future’ e l’interludio ‘Not Yet Today’. Gerstner realizza tre pezzi, toccando quello che all’epoca fu il suo apice compositivo in seno agli Helloween: ‘Who Is Mr. Madman’, ‘You Stupid Mankind’ e ‘My Sacrifice’. Di Weikath sono invece ‘Raise the Noise’ e ‘The Sage, the Fool, the Sinner’. Ma in “7 Sinners” è Grosskopf a stupire in quanto a ispirazione, mettendo a segno le splendide ‘A World of Fantasy’ e ‘If a Mountain Could Talk’. L’album, come approfondito, ha un’atmosfera più cupa, più introspettiva rispetto alle precedenti produzioni. Un aspetto che ritroviamo anche nei testi, dove emergono temi di critica sociale, a volte utilizzando una dissacrante ironia. Le liriche descrivono l’ipocrisia di un mondo che professa libertà di espressione ma che impone pensieri e azioni precostituite. Una società attratta dalla superficialità, incapace di riflettere sull’impatto delle proprie azioni. Cos’altro aggiungere sul platter? Che il sodalizio con Charlie Bauerfeind e i Mi Sueno Studio continua imperterrito. “7 Sinners”, inoltre, su proposta di Gerstner, è stato registrato a 432 Hz anziché a 440 Hz. L’idea nacque dal fatto che la Terra ha una frequenza di 8 Hz e i 432 Hz ne sono un multiplo perfetto. L’intenzione, insomma, era di produrre un full length che fosse in armonia con l’Universo. La mole di lavoro in studio fu notevole e gli Helloween decisero subito di non ripetere più tale esperimento, pur rimanendo soddisfatti del risultato ottenuto. Il disco venne accolto con entusiasmo dal mercato, superando le vendite ottenute con “Gambling with the Devil”, tanto che “7 Sinners” ottenne la certificazione di disco d’oro in Repubblica Ceca. Chiudiamo il capitolo “7 Sinners” soffermandoci su alcune dichiarazioni rilasciate da Weikath durante le interviste dell’epoca. Quando i giornalisti facevano notare al chitarrista una certa similitudine tra il nuovo lavoro e “The Dark Ride”, Weikath rispondeva di comprendere tale riflessione. Sottolineava, però, come la partiture di “7 Sinners” fossero molto più complesse di quelle di “The Dark Ride”, che invece avrebbero potuto essere suonate anche da dei ragazzini. Weikath spiegava inoltre come l’ingresso di Gerstner avesse permesso agli Helloween di evolvere. Grazie a lui, la band iniziò a prestare maggiore attenzione a dettagli che prima non venivano presi in considerazione. Questo permise alle Zucche di superare i propri limiti, di perfezionarsi, di crescere tecnicamente. Con quelle parole, oltre a stuzzicare i vecchi compagni di squadra, Weikath sottolineava quanto fosse unita la line-up degli Helloween di quel periodo. Non c’erano più prime donne, la visione era coesa. Qualsiasi azione, visione, decisione era intrapresa per il solo bene della band. E che Gerstner e Löble abbiano permesso agli Helloween di crescere è un dato di fatto. Come è altrettanto vero che, senza gli Helloween, Gerstner e Löble non sarebbero i musicisti che sono adesso.

 

Una foto promozionale del periodo “7 Sinners”

 

Il “The 7 Sinners World Tour 2010/2011” durò circa novanta date e portò gli Helloween a girare in lungo e in largo il Globo terracqueo. Ad accompagnare le Zucche ci furono gli Stratovarius. La formazione finlandese ebbe però alcuni inconvenienti, in particolare dei problemi di salute che colpirono Timo Kotipelto. Il cantante contrasse un virus alle corde vocali e in alcune date gli Stratovarius non poterono esibirsi, in altre furono costretti a uno show in formato ridotto. Superato l’imprevisto e con un Kotipelto rigenerato, la formazione di Helsinki poté suonare il suo intero set. Sempre in quel periodo, gli Stratovarius furono costretti a sostituire Jorg Michael per i primi mesi del tour. Al batterista, nel 2010, fu diagnosticato un tumore. Riuscì a unirsi ai suoi compagni e tornare on the road solo dopo aver affrontato le prime fasi di cura. Nel “The 7 Sinners World Tour 2010/2011”, inoltre, i Trick or Treat furono l’opener ufficiale di varie date della tournée europea.

 

Una scatto dal “The 7 Sinners World Tour 2010/2011”

 

Completata l’avventura live, gli Helloween erano pronti a tornare in studio per pubblicare il successore di “7 Sinners”. Le idee erano tante e l’ispirazione certo non mancava. Le Zucche erano coscienti di vivere un periodo d’oro, una sorta di terza giovinezza. Era il momento di piazzare un nuovo colpo che potesse confermare l’ottimo stato di forma sfoggiato con gli ultimi lavori e, possibilmente, sbaragliare la concorrenza. Allo stesso tempo, però, le voci su di una possibile reunion con Kiske e Hansen diventavano sempre più insistenti. Si susseguivano ipotesi sulla possibile nuova line-up della band: tre chitarre, due chitarre, un cantante al posto dell’altro: un vero e proprio caos. In un contesto simile, nelle battute conclusive del 2012, gli Helloween rilasciarono l’EP “Burning Sun”, una pubblicazione che anticipava l’uscita del quattordicesimo album: “Straight Out of Hell”. “Burning Sun”, destinato al solo mercato giapponese, contiene quattro pezzi: due canzoni presenti sul futuro full length – ‘Burning Sun’ e ‘I Wanna Be God’ –, una b-side – ‘Another Shot of Life’ – e una live version di ‘Where the Sinners Go’. L’EP venne accolto con curiosità, in particolare perché esibiva due anime quasi contrastanti del futuro album. ‘Burning Sun’ – canzone firmata da Weikath – sfoggia infatti le tipiche componenti melodiche degli Helloween ma evidenzia un animo dannatamente aggressivo. Per certi aspetti, vuoi per l’uso delle rullate, per il ritornello anthemico e il guitarwork delle due asce, in ‘Burning Sun’ riassaporiamo una versione 2.0 dello spirito presente in un lavoro come “The Time of the Oath”. La prova dei singoli si rivela stellare, perfettamente in linea con le ultime produzioni griffate Helloween. Il testo è un manifesto della visione della società da parte di Weikath. Il chitarrista costruisce un racconto in cui il protagonista esprime tutta l’insoddisfazione per il mondo in cui è costretto a vivere. Il suo desiderio è evadere, allontanarsi dal marcio che lo circonda e poter quindi soddisfare i propri sogni. Un inno a credere in sé stessi e a lottare per riuscire a concretizzare le proprie ambizioni. A fare quasi da contraltare a una canzone di cotale impeto, incontriamo ‘I Wanna Be God’. Il brano è scritto da Deris e vede la sola presenza di voce e batteria. ‘I Wanna Be God’ è un omaggio a Freddie Mercury, alla sua grandezza, e presenta un approccio e un’atmosfera completamente diversa da ‘Burning Sun’. La traccia di Deris è a tutti gli effetti un interludio, in cui l’animo Hard Rock è dominante. La dimensione Hard Rock è inoltre il cardine attorno a cui ruota ‘Another Shot of Life’, canzone composta da Grosskopf. ‘Another Shot of Life’ sembra uscire direttamente dagli Helloween degli anni Novanta, fondendo con sapienza Hard Rock e le classiche melodie Power, tipiche delle Zucche. Un pezzo entusiasmante, con un Deris perfettamente a suo agio e capace di fare letteralmente la differenza. ‘Another Shot of Life’ avrebbe forse meritato di finire sul disco ufficiale. Di fronte a tale scelta, il pensiero di molti fan fu più o meno questo: se un brano così valido resta fuori, “Straight Out of Hell” dev’essere l’ennesimo disco killer.

 

La copertina di “Burning Sun”

 

“Straight Out of Hell” uscì a inizio 2013 e, a tutti gli effetti, fu veramente un disco killer! Pubblicato via Sony Music, l’album venne nuovamente registrato presso i Mi Sueno Music di Andi Deris e, confermando il sodalizio di lungo corso, fu prodotto da Charlie Bauerfeind. L’artwork fu realizzato da Martin Häusler, ormai un collaboratore fidato delle Zucche. “Straight Out of Hell” si rivela più solare rispetto al precedente “7 Sinners”, sia per le composizioni che per la scelta dei suoni. Continuano a esserci sperimentazioni e soluzioni al passo con i tempi, come ritroviamo in ‘World of War’ e ‘Asshole’, ma il platter è decisamente più diretto. Rispetto al lavoro del 2010, la caratteristica principale di “Straight Out of Hell” è una maggiore ricerca della melodia. E non a caso, le influenze Hard Rock risultano più marcate. Ne sono un chiaro esempio ‘Live Now’, la splendida ‘Waiting for the Thunder’ e l’ambiziosa ‘Wanna Be God’. L’album regala poi delle assolute gemme di Power Metal, in classico stile Helloween, con soluzioni articolate e ritornelli anthemici. In alcune di queste composizioni – come accade in ‘Make Fire Catch the Fly’ – dominano tonalità più cupe, mentre in altre compaiono trame intricate ma con atmosfere decisamente più positive. Citiamo quindi la conclusiva ‘Church Breaks Down’, con quel ritornello di chiaro stampo Power Speed Melodic Metal, che va a bilanciare una strofa più scura, quasi a unire le due anime appena descritte. L’assolo si rivela vibrante, supportato da una sezione ritmica senza rivali, a cui si aggiunge un coro lirico che dona ulteriore pathos alla canzone. “Straight Out of Hell” funziona davvero bene e regala alcuni pezzi che rientrano tra i classici più recenti della compagine di Amburgo. ‘Burning Sun’, ‘Nabatea’ e la title track, scritta da Grosskopf, sono forse i brani più celebri del platter. Proprio ‘Straight Out of Hell’ rimase per molto tempo nelle scalette live della band, avvalorando quanto scritto poco sopra. Il quattordicesimo full length delle Zucche ci regala una formazione in forma smagliante, autrice di una prova di assoluto livello. Un aspetto che conferma ulteriormente il valore dei singoli musicisti. Un particolare che evidenzia quanto fosse unito in quel periodo il quintetto. Proprio questa comunione di intenti, sia umana che artistica, permise agli Helloween di evolvere ulteriormente e dare ampio spazio alla propria visione artistica. Ecco, se proprio volessimo trovare il classico ago nel pagliaio, dovremmo soffermarci sulla ballad dell’album, ‘Hold Me in Your Arms’. Anche in “Straight Out of Hell”, come già accaduto in “7 Sinners”, la ballad non brilla come in passato. ‘Hold Me in Your Arms’ è ben costruita, ma manca di quella magia che ha reso memorabili brani come ‘As Long As I Fall’, ‘Light the Universe’, ‘If I Could Fly’ o ‘If I Knew’, giusto per citare alcuni titoli. Dopo anni di lenti mozzafiato, gli Helloween appaiono meno incisivi su questo fronte. Nulla di allarmante: un piccolo neo in un disco di grande qualità.

 

La copertina di “Straight Out of Hell”

 

Dal punto di vista compositivo, “Straight Out of Hell” vede crescere l’autorevolezza di Sascha Gerstner negli equilibri interni delle Zucche. Il chitarrista mette a segno ben quattro pezzi: ‘World of War’, ‘Hold Me in Your Arms’, ‘Asshole’ e ‘Church Breaks Down’. Gerstner è autore dello stesso numero di brani di Deris. Il cantante compone infatti ‘Nabatea’, ‘Waiting for the Thunder’, ‘Wanna Be God’ e ‘Make Fire Catch the Fly’. I due, inoltre, realizzano a quattro mani la rockeggiante ‘Live Now!’. Proprio la maggiore presenza di Gerstner in fase di scrittura, con le sue visioni più moderniste, porta Deris a bilanciare il tutto con un approccio più melodico e Hard Rock. In questo gioco di equilibri, le canzoni messe a segno da Grosskopf – ‘Far From the Stars’ e ‘Straight Out of Hell’ – sembrano fatte su misura. Pur rivelando una struttura articolata – per la ricerca della melodia, trama strumentale e linea vocale – i due brani presentano un taglio decisamente classico. Inutile nascondere che anche in questo full length i pezzi griffati Grosskopf rientrino tra gli assoluti highlight dell’album. A completare il disco troviamo poi le canzoni a firma Weikath: ‘Burning Sun’ e ‘Years’. Le due tracce donano ulteriore varietà al platter, arricchendo “Straight Out of Hell” con tonnellate di qualità metallica. Da sottolineare il valore dei testi, davvero curati e carichi di significato. Attraverso una forte dose di ironia, continua la critica sociale. Gli Helloween si scagliano contro l’incapacità della massa di evadere dai sentieri tracciati da chi punta a renderci delle semplici marionette. Individui facilmente manovrabili, privi di personalità. Incontriamo riflessioni che esaltano l’autenticità del sé, il desiderio di differenziarsi, di elevarsi, il vivere la vita senza limiti e timori. Di fondo, “Straight Out of Hell” presenta un messaggio positivo, di speranza verso un futuro migliore, toccando in alcuni frangenti temi spirituali.

 

 

L’album venne accolto positivamente dal mercato, tanto da riuscire a centrare varie top 10: Germania, Finlandia, Svezia e Ungheria. In Germania “Straight Out of Hell” entrò al quarto posto della speciale classifica dei dischi più venduti: il miglior risultato mai raggiunto dagli Helloween in terra natia. Il tour di supporto al disco vide gli Helloween unire nuovamente le forze ai Gamma Ray, per l’“Hellish Rock – Part II”. Gli encore furono caratterizzati da un medley che comprendeva ‘Halloween’, ‘How Many Tears’ e ‘Heavy Metal (Is the Law)’, con un cameo di Kai Hansen. Lo show si chiudeva poi con ‘I Want Out’, con entrambe le band sul palco. Un episodio che alimentò ulteriormente le voci su una possibile reunion. Oltre a queste date, gli Helloween furono protagonisti di una tournée nordamericana e parteciparono a vari festival, sia europei che sudamericani. Sul finire dell’anno, inoltre, Andi Deris pubblicò il suo terzo album solista, intitolato “Million Dollar Haircuts on Ten Cent Heads”. I fan più maliziosi videro in tale mossa un ulteriore segnale verso il tanto famigerato ricongiungimento degli Helloween con Kiske e Hansen. Secondo queste voci, Deris non era sicuro di rimanere in line-up e rispolverava il percorso solista. Se ne sparavano davvero di tutti i colori, insomma.

 

Una foto promozionale del periodo “My God Given Right”

 

Qualcosa si stava però muovendo, per davvero. C’erano vecchi rancori da superare, incomprensioni da sanare ma gli Helloween e il duo Kiske-Hansen stavano piano piano avvicinandosi sempre più. Fu in un simile contesto che le Zucche si trovarono ad affrontare delle decisioni importanti per il proprio futuro. Nel 2014, a seguito di un cambio ai vertici della Sony Music, la compagine di Amburgo decise di non proseguire con il colosso americano e di rientrare in casa Nuclear Blast Records. L’etichetta tedesca fu la più lesta a bussare alla porta di Weikath e, con l’offerta giusta, riuscì a ridare il benvenuto nel proprio roster agli Helloween. La formazione teutonica era quindi pronta a rientrare in studio, per dare alle stampe il successore di “Straight Out of Hell”. L’album, pubblicato nel 2015, risponde al titolo di “My God Given Right”. La squadra è ormai consolidata: Mi Sueno Studio, Charlie Bauerfeind in cabina di regia e artwork curato da Martin Häusler. Inutile negare come le aspettative fossero elevate, in particolare dopo il trittico “Gambling with the Devil”, “7 Sinners” e “Straight Out of Hell”. Succede però l’imprevedibile. “My God Given Right” non c’entra il bersaglio come i precedenti tre lavori, risulta un po’ sottotono, frutto forse di una band concentrata più sul futuro che sul presente. Pur risultando ben strutturato e suonato con la solita dovizia, “My God Given Right” appare meno ispirato rispetto allo standard a cui gli Helloween ci avevano abituato. Il platter sembra proseguire il sentiero intrapreso con “Straight Out of Hell”, dando maggiore peso al lato più classico della band, limitando le soluzioni dal taglio più modernista. È come se la compagine teutonica avesse deciso di puntare sull’immediatezza e sulla facile presa. Quello che sembra venir meno è proprio l’estro, la magia, la capacità di trascinare e coinvolgere l’ascoltatore. Ne è un chiaro esempio ‘If God Loves Rock ‘n’ Roll’, canzone gioiosa e scherzosa che fatica a lasciare il segno. Vi troviamo poi un ritornello in cui la linea vocale, a tratti, sa di autocitazione. Anche canzoni come ‘Heroes’ e ‘Battle’s Won’ – quest’ultima con un richiamo agli Helloween degli anni ottanta – non riescono a convincere appieno. Dopo alcuni ascolti, il loro appeal risulta smorzato. Ma anche nei momenti più ispirati del disco, come ad esempio nell’ambiziosa ‘Living on the Edge’, manca quel flavour, quel pathos, quella capacità di stupire l’ascoltatore. Elementi che avevamo invece apprezzato nei precedenti lavori. Della stessa stoffa anche la conclusiva ‘You, Still of War’, il pezzo che più di tutti mescola soluzioni moderne – con atmosfere cupe – a passaggi più melodici. In questo modo, le composizioni più coinvolgenti di “My God Given Right” risultano quelle con l’animo Hard Rock più marcato. Ci riferiamo a ‘Lost in America’, ‘Stay Crazy’, ‘Russian Roulè’ e la powereggiante e accattivante title track. Queste tracce risultano davvero coinvolgenti, con una cura maniacale per i dettagli. Regalano inoltre interessanti evoluzioni, ben amalgamate e cariche di adrenalina, passaggi che incollano l’ascoltatore alle casse dell’impianto. Un discorso diverso meritano invece ‘The Swing of a Fallen World’, la canzone più cupa e pesante dell’album, una sorta di ‘Don’t Spit on My Mind’ del nuovo millennio, e la ballad ‘Like Everybody Else’. Le due composizioni sanno toccare l’ascoltatore, esplorando il lato più introspettivo dell’album – questo è il caso di “The Swing of a Fallen World” – e quello più intimista – con la toccante ‘Like Everybody Else’.

 

La copertina di “My God Given Right”

 

Un’altra particolarità di “My God Given Right” è la scelta di una produzione estremamente pulita. I suoni appaiono cristallini, valorizzando ogni singolo strumento, premiando in particolare le sei corde. In questo modo risalta la prova di Sascha Gerstner, che sfoggia un tocco elegante e peculiare. Gli inserti tastieristici, poi, ottengono maggiore luce nelle varie canzoni, una soluzione un po’ in controtendenza rispetto allo standard helloweeniano. I testi, tramite l’ironia che da sempre contraddistingue la band, continuano nell’analisi e nella critica sociale. Potremmo quasi dire che “My God Given Right” è un inno contro l’omologazione e la standardizzazione del pensiero e dell’individuo. Il messaggio è forte e chiaro: credere in sé stessi, usare la propria testa, mantenere viva l’innata eccentricità che caratterizza ognuno di noi. Il quadro è quello di un mondo in forte degrado, in cui avanza incontrastata l’alienazione dell’umanità. Con “My God Given Right”, gli Helloween invitano quindi a lottare contro questa evoluzione malata della società. Una battaglia che può essere vinta solo alimentando i propri valori e premiando le diversità dei singoli. Da segnalare le atmosfere post-apocalittiche in ‘You, Still of War’ che, molto probabilmente, hanno influenzato la copertina di Martin Häusler. In “My God Given Right” Deris ritorna a essere il compositore più prolifico, realizzando ben cinque pezzi: la title track, ‘Stay Crazy’, ‘Lost in America’, ‘The Swing of a Fallen World’ e ‘If God Loves Rock ‘n’ Roll’. Di Gerstner, invece, risultano ‘Heroes’ e ‘Like Everybody Else’. I due, inoltre, a quattro mani firmano ‘Russian Roulè’ e ‘You, Still of War’. Weikath mette a segno tre brani: ‘Battle’s Won’, ‘Creature in Heaven’ e ‘Claws’, mentre Grosskopf realizza ‘Livin on the Edge’.

 

 

Pur risultando un po’ sottotono rispetto agli ultimi lavori, “My God Given Right” venne accolto positivamente dal mercato. Il disco centrò varie top 10 e in Repubblica Ceca ottenne la certificazione a disco d’oro. Gli Helloween erano quindi pronti a partire in tour e dare il via a un processo destinato a mettere in subbuglio intere generazioni di metalhead. Noi ci fermiamo qui, però. L’appuntamento è per il prossimo e ultimo capitolo della storia delle Zucche più amate dall’intero universo metallico.

To be continued…

 

Marco Donè