Recensione libro: ‘My Appetite for Destruction’

Di Damiano Fiamin - 9 Luglio 2012 - 0:10
Recensione libro: ‘My Appetite for Destruction’

My Appetite for Destruction
Sesso, droga & Guns N’ Roses

di Steven Adler
con Lawrence J. Spagnola

Chinaski Edizioni – 239 pagine + 8 pagine di foto
PREZZO: € 18,00
ISBN: 978-88-89966-95-2
FORMATO: 15X21

La Chinaski Edizioni è una casa editrice di Genova che, tra le varie collane, ne ha una dedicata alle biografie di importanti musicisti, artisti di fama provenienti dai più disparati generi musicali. Quella che andiamo ad analizzare questa volta è l’autobiografia di Steven Adler, primo batterista dei Guns N’ Roses e attualmente in forze nei ranghi degli Adler’s Appetite. Il libro si presenta in un comodo formato tascabile, piacevole al tatto e di stampato in modo piuttosto chiaro su carta riciclata; la casa editrice aderisce alla campagna “Scrittori per le foreste”, organizzata da Greenpeace, ed ha realizzato un libro ad impatto zero.

Secondo quanto riportato da Adler stesso nella premessa, il libro è stato scritto per molteplici motivi: innanzitutto, il musicista aveva intenzione di mettere ordine nella confusione che regna all’interno della sua testa; inoltre, attraverso una pubblicazione ufficiale, voleva cercare di scremare quanto è stato detto negli anni, tutte le leggende metropolitane, le dichiarazioni artefatte e quelle incoscienti che sono emerse e hanno girato da quando il batterista era all’apice della sua gloria con i GNR, fino al suo declino e al successivo tentativo di riprendersi. Il mondo del rock and roll è pieno di storie in cui la fama, il denaro e le cattive compagnie riescono a distruggere una persona, trascinandola in una spirale degenerativa che consuma i soggetti più deboli, distrugge i rapporti umani e, fin troppo spesso, ha un epilogo tragico. Se almeno la metà di quello che viene raccontato in queste pagine è vero, Steven Adler era un soggetto predestinato.

La prima parte del libro è anche la più interessante e narra dell’infanzia di Micheal Coletti, figlio di un perdigiorno di origine italiana fin troppo propenso ad accostarsi alla bottiglia e di una donna di origine ebraica, squinternata quanto basta per decidere di sposare un uomo senza né arte né parte. Dopo il naufragio del suo matrimonio, i nonni riprendono la madre di Adler sotto il loro tetto a patto che i due figli nati da quell’unione vengano educati come buoni ebrei; il primo passo, è il cambio del nome. Secondo tradizione, non è possibile che una persona porti il nome di qualcuno che non è ancora morto e il giovane Micheal era stato battezzato con il nome del nonno paterno. Deanna convola a seconde nozze con Mel Adler, che adotta i due bambini, dando loro il suo cognome. È qui, pertanto, che nasce Steven Adler. Bambino difficile, per usare il linguaggio degli educatori, che cerca di farsi notare in tutti i modi possibili da una famiglia che mal sopporta la sua iperattività. Un giovane teppista problematico, che viene sbattuto fuori di casa a dodici anni dai propri genitori e si ritrova a convivere con i nonni, a cui rimarrà sempre molto legato. L’incontro con le droghe e il sesso precoce, con risvolti piuttosto traumatici, segnano la fine dell’innocenza del giovane Steven, che si trova immerso in un mondo in cui ben pochi adulti hanno un ruolo positivo e sono gli amici aa tenere integra la sua sanità mentale; tra questi, Saul Hudson, Slash. Questa prima parte è decisamente la più interessante e, dettaglio non trascurabile, ben scritta. Non so se è Adler ad aver scritto tutto di proprio pugno o se, molto più probabilmente, dietro le sue parole c’è un esercito di ghost writer che ha tentato di dare una forma compiuta ai pensieri del musicista. In ogni caso, le pagine scorrono via senza sforzo; le vicende vengono narrate in maniera asciutta, senza troppo compatimento o soddisfazione. L’impressione generale è quella di una seduta psicanalitica, in cui il paziente lascia che il flusso di coscienza irrompa senza freni, senza trattenere il più piccolo dettaglio e, al contempo, si spersonalizzi, in modo da oggettivare quanto più possibile i fatti e capire come non esserne schiacciati.

Paradossalmente, la seconda parte dell’opera diventa meno interessante. Da quando Adler e Slash incontrano quelli che sarebbero diventati i GNR, l’intreccio si appiattisce. L’arrivo sulla scena di Axl Rose, Duff McKagan e Izzy Stradlin non dà vita ad un flusso di aneddoti molto interessanti; la scalata verso la fama si tramuta in una sequenza apparentemente infinita di concerti, droghe e ragazze, spesso in contemporanea. Sebbene possa essere intrigante, soprattutto per i fan più accaniti, leggere tutti i retroscena dei festini organizzati dalla band o, molto più spesso, dal batterista e dai suoi amici, alla lunga, la parabola discendente dell’artista maledetto comincia a diventare stucchevole. Ancora una volta, c’è da dire che Steven non si compiace mai troppo a lungo dei suoi comportamenti autodistruttivi con alcol e droghe, non fa lo spaccone quando elenca le innumerevoli donne con cui ha fatto sesso; i momenti di vero entusiasmo, al contrario, emergono solo quando si parla di musica, sia durante l’avventura con i GNR, sia quando si tratta di raccontare gli artisti che ha incontrato durante la sua carriera e che, in un modo o nell’altro, sono riusciti a lasciare un segno nella sua memoria. Uno spaccato di vita vissuta, intensamente e malamente, senza censure e senza cercare giustificazioni. Adler ha compiuto numerosi errori durante un lungo periodo della sua esistenza, ma non si può dire che non ne sia consapevole e che non abbia cercato di venirne a capo.

La parte conclusiva ci restituisce un uomo distrutto dopo che la band che aveva contribuito a costruire l’aveva, senza troppi riguardi, licenziato. Se nella sezione mediana l’elenco delle droghe consumate dal musicista poteva far invidia ad Al Pacino in Scarface, adesso abbiamo davanti un vero e proprio compendio dell’autodistruzione. Stordimenti chimici, tentativi di suicidio, depressione e, in generale, tutto ciò che può rendere un uomo l’ombra di se stesso. Tradito da quelli che reputava amici, incapace di accettare la cosa, Adler si spinge oltre ogni limite lanciandosi a tutta velocità verso il baratro. In qualche modo, incredibilmente, riesce a venirne fuori e a ricostruire lentamente la sua vita, anche grazie a persone pazienti che gli rimangono a fianco e insistono per rimetterlo in carreggiata. Dopo la nascita degli Adler’s Appetite, il batterista si rimette in sesto e torna ad un’esistenza abbastanza normale, sebbene sia ancora perseguitato dagli spettri del passato.

Le foto in bianco e nero sono un buon corollario a quanto viene letto e permettono, se non altro, di dare un volto ai personaggi citati nelle pagine. Niente di eccezionale, per carità, ma hanno un buon valore documentaristico.

My Appetite for Destruction è un libro interessante, in alcune parti addirittura avvincente come un’opera di narrativa. Il problema maggiore è la ridondanza di alcune sezioni che, forse, sarebbero potute essere accorpate o snellite. Mi rendo conto che, parlando di un’autobiografia, ha poco senso pensare di tagliare alcune parti perché ripetitive. In realtà, Adler dimostra durante tutta la prima parte di saper trattare argomenti già accennati senza scadere nella pesantezza; peccato che non riesca a farlo per tutte le 200 pagine dell’opera e contribuisca, in questo modo, a creare un libro a due velocità di lettura.
In definitiva, il libro è sicuramente consigliato a tutti i fan del musicista e della band che ha contribuito a creare. Dopo anni passati ad ascoltare le sparate di Axl e le deliranti dichiarazioni di un uomo distrutto dalla droga, è bello pensare di aver finalmente tra le mani un ritratto, certo non oggettivo, ma perlomeno sincero, di quanto è accaduto in quegli anni travagliati. Steven Adler cerca di riconciliarsi con il mondo, mostrando le proprie mancanze e ammettendo che la maggior parte dei suoi guai sono originati proprio dall’interno della sua psiche. Un’ammissione onesta e difficilissima, che non tutti sono in grado di fare. Una confessione talmente candida in alcuni suoi frangenti che ci fa prendere in simpatia l’uomo più che il musicista e che, nel bene e nel male, ci spinge a tifare per Adler, augurandogli un futuro più tranquillo.