Roadburn Redux, 15-18 aprile 2021, live@roadburn.com

Di Matteo Pedretti - 1 Maggio 2021 - 18:07
Roadburn Redux, 15-18 aprile 2021, live@roadburn.com

Negli Novanta nei Paesi Bassi Walter Hoeijmakers e Jurgen van den Brand diedero vita a Roadburn, blog specializzato in Stoner Metal/Rock che in breve tempo divenne il punto di riferimento dell’intera scena internazionale. Grazie alla loro passione, tenacia e competenza e ai contatti che i due seppero stabilire, nel 1999 il blog si trasformò nel Roadburn Festival: uno degli eventi musicali underground più rispettati a livello mondiale.

Il Roadburn è un festival organizzato da amanti della Musica per amanti della Musica e la Musica è il suo unico motore: nessun nome altisonante da venerare, nessun riempitivo piazzato nel running order solo per occupare tempo, nessuno sciacallaggio sulla vendita di birra, bibite e panini. La line-up è selezionata con la massima cura dal direttore artistico Walter Hoeijmakers con il supporto della stretta collaboratrice e responsabile della comunicazione Backy Laverty. Così ogni anno, nel mese di aprile, la tranquilla città olandese di Tilburg è presa d’assalto da un pacifico esercito di circa 4.500 persone tra metallari, alternativi e fricchettoni, il 75% dei quali provenienti da oltreconfine. Il festival è motivo di vanto per la città che, oltre a disseminare i luoghi di maggior passaggio e visibilità di manifesti e bandiere della manifestazione, lo supporta economicamente. Da parte loro anche i residenti sembrano divertiti e contenti che la loro città diventi temporaneamente la casa di questa orda certamente strana, ma educata e rispettosa.

Incentrato inizialmente su Stoner, Doom, Sludge e Heavy Psych, il Roadburn – senza mai abbandonare le proprie radici – ha costantemente saputo rinnovarsi, aprendosi progressivamente alle sonorità più disparate, ma che trovano nel concetto di heavyness un denominatore comune. Per pesantezza non si intende solo quella prodotta da strumenti distorti e volumi assordati (che certamente non manca), ma anche quella insita in suoni più leggeri e delicati, ma oscuri ed emotivamente opprimenti. Il Roadburn è un festival “sparso”: oltre alla location principale, lo 013 Poppodium (accostabile per caratteristiche e dimensioni all’Alcatraz di Milano), ve ne sono, a seconda dell’edizione, altre tre/quattro (fino al 2019 una era Et Patronaat, una chiesa sconsacrata purtroppo recentemente riconvertita a showroom). Tra queste c’è anche uno skatepark, adibito anche a spazio concerti, per accedere al quale non è necessario alcun biglietto o braccialetto, favorendo così l’interazione e l’integrazione tra la popolazione locale e il pubblico.

Così, per quattro giorni all’anno, gli ascoltatori si costruiscono una sorta di nido fatto di musica pesante, prevalentemente lenta, che va dal Doom/Sludge/Stoner alla Dark Wave, dall’Heavy Psych al Folk, dal Black Metal al Dream Pop, dal Post Metal al Prog, passando per Drone, Ambient ed elettronica. Per l’edizione 2021, tenutasi tra 15 e il 18 aprile, il Roadburn si è saputo adattare alle circostanze, trasformandosi in Roadburn Redux: una piattaforma streaming ad accesso libero (con la possibilità di effettuare donazioni) appositamente progettata per l’occasione su cui sono stati caricati – secondo un programma ben definito – una valanga di contenuti. Concerti in diretta dallo 013 Poppodium in cui si sono esibite le band europee che, superando le limitazioni del momento, sono riuscite a raggiungere Tilburg, set preregistrati (tutti in esclusiva), contributi audio/video appositamente realizzati, Q&A Sessions, documentari, una chat affollatissima e quattro stanze virtuali. Tutto questo è stato reso possibile oltre che dalla visione e dalla determinazione degli organizzatori, anche dal sostegno di due etichette: la finlandese Svart Records e la tedesca Pelagic Records hanno infatti fornito moltissimi contributi. Un’ultima nota prima di passare al live report: come nella versione fisica del Roadburn, anche in quella virtuale la contemporaneità dei concerti ha determinato l’impossibilità di seguirli tutti. Nonostante l’ingente quantità di tempo passata davanti allo schermo e la possibilità di rivedere le registrazioni fino a martedì 20 aprile (2 giorni dopo la fine del festival) sono stato obbligato a fare delle scelte. Quello che segue è quindi il racconto del mio Roadburn Redux.

Giovedì 15 aprile dopo un breve discorso introduttivo tenuto dal mite direttore artistico Walter Hoeijmakers (aka Walter Roadburn) e Becky Laverty, si sono susseguiti gli show preregistrati di tre ottime band che hanno settato il giusto mood, creando grandi aspettative per i giorni a venire: gli Psych/Prog rockers finlandesi Kairon; Irse!, i tedeschi Tau, con la loro commistione di ‘70 Rock, Psichedelia e Folk, e i Drowse, che si caratterizzano per una peculiare fusione tra Shoegaze e Drone/Ambient.  Molto interessante anche il video commissionato ai blackster An Autumn For Crippled Children.

Venerdì 16 aprile è aperto dall’ibrido tra chitarra Metal ed effetti elettronici dei Doctors Of Space, un po’ di sano e leggero divertimento prima di una doppietta Drone/Ambient tanto intesa quanto emotivamente estenuante: il live in diretta degli olandesi Die Wilde Jadg e il contributo dei canadesi Nadja. Si continua sulle note dei nostri connazionali Nero di Marte e con il Doom/Folk di The Devils’s Trade che per l’occasione ha eseguito per intero il recente “The Call of the Iron Peak” (qui la recensione di Truemetal). Prima di cena c’è ancora spazio per le avventure violinistiche di Jo Quail e per la performance in diretta dei Gold. La formazione olandese, in cui militano ex componenti dei seminali The Devil’s Blood, ha suonato in anteprima l’album di prossima uscita “This Shame Will Not Be Mine”. La serata trascorre in un batter d’occhio con le esibizioni registrate, passando dallo Space/Progressive Rock dei Polymoon al Progressive Sludge degli immensi The Ocean, impegnati nella riproduzione integrale di “Phanerozoic II” (qui la recensione di Truemetal). Dopo la premiere video degli Years Of No Light (il cui prossimo album è in uscita a luglio) è il turno dei due concerti della buona notte: quello dei Maggot Heart, con il loro Garage Rock a tinte ora Punk ora Doom, e degli sludgers statunitensi Inter Arma che si lanciano nell’esecuzione di un cover set prevalentemente Hardcore (con pezzi di Minor Threat, Cro Mags e Hüsker Dü) in cui hanno trovato spazio anche Venom, Tom Petty e Creedence Clearwater Revival.

Sabato 17 aprile si riparte nel primissimo pomeriggio con le olandesi Doodswens, che a dispetto della giovane età hanno molto da dire in campo Raw Black Metal, e gli americani Knoll, dediti a un Grindcore dai granitici rallentamenti Sludge. Si prosegue con i Solar Temple, formazione composta da componenti di Fluisteraars e Turia e – almeno sulla carta – dedita al Black Metal, la cui esecuzione di “The Great Star Above Provides” è orientata in realtà a una psichedelia molto particolare. È poi il turno dei Dawn Ray’d che, ripresi a suonare in una chiesa, performano un furente pezzo Black e uno Folk. Il pomeriggio si chiude con la temibile sequenza Body Void (che negli ultimi anni, insieme a Vile Creature e Sunrot, stanno definendo i canoni del nuovo Sludge/Doom americano), Primitive Man, Mizmor e Jonathan Hulten (ex Tribulation). Al far della sera si torna a Tilburg per la diretta dei Plague Organ, autori in un Death Metal sperimentale in cui si distingue quella macchina da guerra che è il batterista. La serata regala i tre picchi della giornata. Il primo è il set registrato di Steve Von Till (voce e chitarra dei Neurosis) che, avvalendosi della collaborazione di musicisti di Seattle di primissimo livello (tra cui la violoncellista Lori Goldston, che molti ricorderanno per l’apparizione nell’ “Unplugged in New York” dei Nirvana), ha messo in piedi uno show acustico raffinato e toccante, in gran parte incentrato su pezzi dell’ultimo “No Wilderness Deep Enough”, senza tralasciare perle più datate del suo repertorio solista. Altro momento di grande intensità, sicuramente uno degli highlight dell’intero evento, è stato il live streaming dei The Nest, progetto collaborativo in cui i musicisti dei Wolvennest sono stati affiancati sul palco da ospiti di indiscussa caratura: Tommy Ericksson dei Saturnalia Temple, Alan Averill “Namtheanga” dei Primordial, Alexander von Meilenwald della one man band The Ruins of Beverast e Ryanne van Dorst dei Dool. I quattro si sono alternati al microfono – prima del gran finale corale – dando vita a un rituale di psicotico Doom Metal dalle tinte Black. La giornata di sabato non poteva chiudersi in modo migliore che con l’esibizione, ancora una volta dallo 013 Poppodium, dei Neptunian Maximalism, che hanno stregato con il loro ibrido di Drone, Doom, Avantgarde, Ambient, Jazz e Psichedelia.

Il risveglio del 18 aprile non è diverso da quello di tante domeniche in terra olandese, con un pensiero che inizia a riaffiorare insistentemente: è già l’ultimo giorno! Non c’è tempo da perdere: subito dopo l’ora di pranzo il live streaming di Dirk Serries regala atmosfere eteree che scorrono sul il filo sottile che separa il Drone dall’Ambient. Si prosegue con le soluzioni più immediate offerte dalla Pelagic Records: il Post Metal dei belgi Psychonaut, lo Sludge dei Sâver  e il Dark Rock/Doom dei francesi Crown. Tra contributi audio/video e Q&A Sessions (molto interessante quella con Kristin Hayter aka Lingua Ignota che ha parlato del nuovo album in imminente uscita) si fa sera ed è la volta dell’Occult Rock elettronico (quasi un ossimoro considerato come il genere suoni solitamente vintage) degli Of Blood And Mercury. Si arriva così agli ultimi tre concerti. Gli Hexvessel, formazione Folk/Psych finlandese, celebrano il decennale del loro debut Dawnbearer offrendone una curatissima riproposizione integrale, con tanto di strumenti nordici tradizionali. Seguono i Wolvennest: a differenza della sera precedente il palco olandese è tutto dei belgi che si lanciano nella coinvolgente esecuzione dell’ultima fatica in studio “Temple”, uscito poco più di un mese fa (qui la recensione di Truemetal). La chiusura del festival è affidata ad Aaron Turner, carismatico leader di Sumac, Old Man Gloom e degli ormai disciolti pionieri del Post Metal Isis, che, in versione solista e casalinga (con un’impressionante parete di vinili alle spalle), ha servito un monolite Doom/Sludge/Noise, non privo di passaggi intimisti.

Con il chiaro intento di “alzare l’asticella”, anche quest’anno il direttore artistico Walter Hoeijmakers ha spinto gli ascoltatori a uscire dalla propria comfort zone per immergersi in una proposta variegata, spesso difficile, sicuramente mai banale. Come dopo ogni Roadburn, rimane la spossatezza dovuta all’ascolto di musica emotivamente impegnativa e l’euforia per la scoperta di nuove band, da ascoltare ora in tutta tranquillità in attesa di poter finalmente rimettere piede sul suolo olandese nel 2022. Strano a credersi, ma questo festival non è stato poi tanto diverso dagli altri, forse perché prima di tutto il Roadburn è un’attitudine, un luogo ideale che realmente esiste nella mente di una manciata di migliaia di persone sparse per il mondo accomunate da una passione/ossessione per la musica pesante, in ogni sua forma…