Gods Of Metal 2006 – Day One – 1 giugno 2006

Di Alberto Fittarelli - 19 Giugno 2006 - 0:00
Gods Of Metal 2006 – Day One – 1 giugno 2006

Foto di Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli [cliccate sulle foto per ingrandirle]

Ed eccoci anche per il 2006 a riportarvi il più fedelmente possibile l’esperienza del Gods Of Metal: la versione 2006 si presenta accattivante, forse più che negli anni passati, e strutturalmente ben organizzata ma… non del tutto esente da qualche pecca. Per un discorso generale sul festival vi rimandiamo all’ultima parte di questo nostro report “a puntate”: ora via con la descrizione dei gruppi del primo giorno.

Milano, Idroscalo, 1 giugno 2006

I Cappanera? Sorry, la trafila burocratica che si rende necessaria per ottenere il miliardo di pass, accrediti e tagliandini vari per poter entrare a lavorare a questo fantastico report ci costringe a perderli, complice anche la lunga attesa fuori dai cancelli e il fatto che inizino a suonare prima ancora che la gente possa accedere all’interno dell’arena.

Arena che si dimostra forse un po’ ridotta per le aspettative che può suscitare un evento del genere,che vede all’opera alcuni dei gruppi di rock duro più accattivanti che la scena odierna proponga. Ma sono dettagli che non c’è il tempo di approfondire dato che si presentano velocemente sul palco i finnici Amorphis, forti di un album grandioso come Eclipse: il combo è affiatato, propone una scaletta eterogenea e che pesca da un po’ tutta la loro ormai lunga carriera, e offre un cantante davvero all’altezza. In the Beginning e Against Widows sono accolte da un boato della folla, il growl è perfetto e rimanda direttamente al suono pieno di feeling proprio dei dischi da cui provengono e la band si mostra in palla al punto giusto. Si va a citare addirittura il lontano debutto, così come album più recenti come Tuonela, ma la parte del leone la fa giustamente Eclipse, la cui riuscita in sede live deve molto alla varietà del materiale che contiene. Lo show doveva essere suggellato dalla divina Black Winter Day, ma a causa di ritardi abbastanza pesanti sulla tabella di marcia il set viene mutilato di almeno un paio di brani, tra cui la gemma di Tales of a Thousand Lakes. Un gran bel concerto insomma, potente e pieno del feeling nordico che li ammanta, grazie anche alla prestazione del nuovo singer che sembra non soffreire il pesante paragone con Pasi Koskinen. Il neoarrivato passa dalle linee pulite al growl con grande maestria, riuscendo nell’atra grande impresa di mantenere vivo il sentimento originale della musica del combo finnico.

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli, Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

Pochi minuti di attesa e viene il turno dei tedeschi Caliban, richiamati all’ultimo momento dopo la defezione dei Dimmu Borgir. Un cambio non certo conveniente per gli spettatori che cominciano a riempire l’arena di fronte al palco. Mezz’oretta abbondante di metalcore, ricco di energia ma alquanto inflezionato, che vede una band che fa di tutto per coinvolgere il pubblico con una prestazione buona ma che non fa gridare di certo al miracolo. Riff quadrati e cadenzati, voce urlata con forza, buona presenza scenica, ma niente di più di quello che avreste potuto vedere con un qualsiasi altro gruppo dello stesso genere. Per quanto ancora dovremo sorbirci gruppi simili, tutte formazioni volenterose ma senza la personalità per potersi affermare.

Stefano Risso

Nati nei giorni del black metal intransigente per poi cavalcare l’onda di un progressivo allontanamento degli stilemi minimalisti degli albori, i Satyricon sono oggi tra i gruppi che più hanno cambiato nel corso della loro produzione discografica. Salgono sul palco del Gods of Metal con grande determinazione e convincono grazie a una prova compatta e precisa, come da copione guidata dalle ritmiche taglienti di Frost e dal carisma di Satyr. La band nordica deve affrontare una specie di ‘prova del fuoco’ di fronte ai fans italiani, notoriamente conservatori, che vogliono ascoltare il nuovo, discusso Now, Diabolical alla prova del palco. Ed all’inizio la band sembra volerseli accattivare, consegnando ai fan in visibilio una Dominions of Satyricon ottimamente eseguita, tratta direttamente dal capolavoro The Shadowthrone. Rotto il ghiaccio, ed è il caso di dirlo, si passa i brani dei nuovi lavori, su cui spiccano le ormai note Repined Bastard Nation e Fuel For Hatred, intervallate dalle non dissimili Now, Diabolical e The Pentagram Burns dal nuovo album. Una performance abbastanza coinvolgente, forse un pelo sotto lo standard della band di Satyr, il quale è sembrato a tratti poco coinvolto. Sarà anche il fatto di suonare in pieno giorno che li danneggia, ma la chiusura con Mother North riesce a far venire i brividi anche coi 30° dell’Idroscalo…

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli, Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

Da venticinque anni scorrazzano su e giù per i palchi dei festival di tutta Europa, spesso condannati e relegati a minutaggi e gerarchie che non rispecchiano il reale valore della band. Nonostante tutto ciò i Sodom sanno comunque come conquistare il pubblico del Gods of Metal: thrash metal teutonico a presa diretta. Scaletta inevitabilmente incentrata sull’ultima fatica da studio della band, ma ad andare a segno più di tutti sono i classicissimi come Napalm in the Morning e Ausgegtbomb. Tom Angelripper guida il trittico all’assalto sonoro e trova la sua banda più che disposta a mettere in campo dieci anni di serrata collaborazione: il risultato è un’oretta di show targato in maniera tremendamente canonica Sodom, nè più nè meno.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

Giusto il tempo di riprendersi e tocca ai Nevermore calcare il palco, formazione che purtroppo si presenta rimaneggiata dal momento che il chitarrista Steve Smyth si trova impossibilitato a causa di problemi di salute ai reni, dovendo rinunciare a tutti gli impegni estivi della band. Augurando una pronta guarigione a Smyth, andiamo a ripercorrere la prestazione dei nostri, che nonostante i problemi di line-up forniscono una prova sicuramente di buonissimo livello. Certo, chi ha avuto la fortuna di vedere i Nevermore nella data meneghina del settembre scorso, sarà rimasto un po’ dispiaciuto nel vedere i Nevermore di quest’oggi, ovvero una macchina da guerra a cui è stato tolto gran parte del potenziale a disposizione. Inutile girarci attorno, la mancanza di una seconda chitarra si sente eccome, nonostante il talento di Jeff Loomis riesca per lo meno a colmare parzialmente il vuoto con i suoi assoli al fulmicotone -eseguiti manco a dirlo alla perfezione- e con ritmiche potentissime. Si inizia alla grande con una prorompente Final Product, estratta dal capolavoro This Godless Endeavor, in cui mi è sembrato di rivedere i Nevermore che ricordavo… Un Warrell Dane estremamente coinvolgente, coadiuvato dal lavoro “sporco” di Jim Sheppard al basso e di un Van Williams sugli scudi, in cui tutto gira per il meglio. Se fino a questo punto la resa sonora degli amplificatori non era stata eccezionale (trend che proseguirà un po’ per tutto il concerto), con la seguente Engines of Hate si tocca proprio il fondo. Dopo qualche secondo dopo l’inizio del brano salta completamente tutta l’amplificazione, costringendo i nostri a ricominciare da capo dopo aver atteso qualche attimo per poter risistemare tutto quanto. E come se non bastasse il microfono di Dane ha continuato a dare problemi, funzionando a scatti, e provocando una certa (e comprensibile) insofferenza da parte del cantante, che nonostante tutto si è dimostrato, come il resto della band, molto professionale a proseguire il concerto come se niente fosse. Problemi a parte, sono stati proposto brani che hanno toccato un po’ tutti i lavori della band di Seattle (ad eccezione del debutto), come The Seven Tongues of God da The Politics of Ecstasy, passando per The River Dragon Has Come e Narcosynthesis, tratte da Dead Heart in a Dead World, giungendo al penultimo album, Enemies of Reality con I, Voyager e Enemies of Reality, dando ovviamente spazio anche a This Godless Endeavor, con la title-track e Born in chiusura. Tirando le somme posso dire di aver visto un’esibizione decisamente valida, ma che per vari motivi non è stata all’altezza delle potenzialità che i Nevermore hanno saputo esprimere in altre circostanze. Comunque una garanzia.

Stefano Risso

Quando salgono sul palco i Testament non ha ancora finito di posarsi l’immensa nuvola di terra sollevata durante il violento pogo scatenatosi coi Nevermore. I thrasher, che si sono posizionati tra le band più apprezzate della giornata, non sbagliano un colpo proponendo al pubblico una setlist piuttosto classica, praticamente da greatest hits e da massacro (letteralmente fisico per chi stava… “Into the Pit”). L’esibizione mantiene caldo il Gods per tutto il tempo: d’altronde i Testament sono ormai dei veterani sugli stage, per cui è totalmente superfluo complimentarsi con loro per come sanno entusiasmare la folla. Unica nota di demerito: aver lasciato completamente fuori The Gathering dalla scelta dei pezzi… Mi sarei aspettata almeno una True Believer. Peccato. In ogni caso con Over the Wall, Disciples of the Watch, Burnt Offerings, Electric Crown, Raging Waters, The Preacher, Trial by fire, Into the pit, Practice What You Preach e Souls of Black, è stata sicuramente proposta un’ora di thrash metal di alto livello.

Paola Bonizzato

Dei Down di Phil Anselmo, francamente, non siamo riusciti a cogliere molto: il lavoro resosi necessario per le numerose interviste della giornata e presso lo stand di TrueMetal ci hanno costretti a perdere gran parte della loro esibizione. Cosa dire dei pochi brani visti? Che la miscela sludge/southern/doom della band di New Orleans è nota, ma ancor più nota è la smania di protagonismo connatura con un Phil Anselmo ormai “scoppiato”, che basa sul proprio ‘personaggio’ gran parte dello show, togliendo spazio legittimo all’interesse destinato alla band. Peccato, anche perchè Phil è ben lontano dai suoi giorni d’oro: la voce non esiste più, trasformata in un urlo acido e francamente banale, e ormai la luce riflessa dei Pantera sta iniziando a svanire, almeno per lui…

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli

In assenza dei Dimmu Borgir, la posizione più alta del bill dopo quella degli headliner viene affidata agli Opeth: posizione del resto del tutto meritata, che premia l’impressionante continuità dei colossi svedesi. Già le prime note di The Grand Conjuration, hit imprescindibile del recente successo Ghost Reveries, mostrano una band in forma sontuosa – ma non è certo il versante tecnico-esecutivo a destare perplessità. Piuttosto, considerata l’elaboratezza della proposta della band, a essere messa alla prova è la capacità di rendere accattivanti anche dal vivo brani lunghi e complessi, che fanno di atmosfere e profondità sonora le loro armi vincenti. E se effettivamente lascia soddisfatti a metà un pezzo come Closure, tra i migliori di Damnation, incapace però di esprimere tutto il suo potenziale in sede live, ci pesa il devastante trittico finale, composto dall’acclamata The Leeper Affinity, dalla trascinante Damnation e dalla primordiale gemma oscura Demon of the Fall, a spazzar via ogni perplessità circa la riuscita totale dell’esibizione. Merito tra gli altri di uno straordinario Akerfeldt, evocativo nel pulito e semplicemente perfetto nel growl, capace tra un cambio di chitarra e l’altro di accattivarsi le simpatie del pubblico con pacata arguzia e sferzante ironia. I brani sono solo sei, ma la durata elevata consuma rapidamente l’ora di tempo concessa, gli Opeth lasciano il palco tra gli applausi:tocca agli headliner.

Riccardo Angelini

Calata italica per i Venom: doveva essere uno dei concerti dell’anno, è stato uno degli show forse meno brillanti e continui del primo giorno, complici band che hanno tirato fuori dal cilindro prestazioni davvero entusiasmanti (vedi gli Amorphis). Dovevano essere una macchina da guerra pronta al devasto totale ma l’assalto vero e proprio si è intravisto solo qua e là. Come da programma, intorno alle 22 il trittico si presenta sulle assi dell’idroscalo. Cronos, Antton e l’ex-Cathedral Mike “Mykus” Hickey salgono sul palco del Gods of Metal in tenuta Venom e buttano la scintilla sulle polveri. L’apertura a ferro e fuoco con Black Metal è una vera e propria razzia di anime ma poi, pian piano, la band comincia a dare segni di cedimento. Il tempo passa, Cronos resiste più di molti altri ma si deve affidare a diversi stratagemmi vocali e non per reggere tutto il concerto su livelli decorosi. Con il passare dei brani tra le fila del pubblico cominciano ad alzarsi alcuni mormorii di disapprovazione per la prestazione della band. I pezzi sfilano uno dopo l’altro ma la reazione dei presenti non è all’apice, specialmente nei fan di vecchia data e negli ascoltatori delle retrovie, difficile terreno di conquista e frangia disposta a lasciarsi trascinare soltanto da prove veramente coi fiocchi. La band macina il suo repertorio, ma è solo con le cose migliori del nuovo (mediocre) disco, come The Antichrist, e le vecchie glorie come In League with Satan e Countess Bathory che i Venom fanno tuonare l’impianto meneghino. Die Hard vede l’ingresso di un Phil Anselmo visibilmente emozionato, ma la prestazione congiunta del leader dei Down con il buon Cronos non risulta indimenticabile, anzi. Accolta con un boato invece la citazione dei Motorhead piazzata a inizio show in uno dei tanti stacchi che le ritmiche dei Venom prevedono.
Marci, violenti e sgraziati: questi sono i Venom; così li volevamo e così li abbiamo avuti. Certo si poteva essere più marci, violenti e sgraziati di così…. insomma più convincenti. Concerto positivo ma non eccezionale, che tra le altre cose pone l’accento sul divario qualitativo tra i pezzi targati 1981-982-1983 e quelli del nuovo Metal Black, alla cui title-track è affidata la chiusura dello show.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

Nota sui Venom: quello che lasciato francamente allibiti è stata la non eccessiva partecipazione dei presenti, che spessissimo lasciavano il povero Cronos in pericolosi “vuoti” nel momento in cui lui, con gli atteggiamenti standard previsti dalla sua immagine, si aspettava boati di ritorno che in realtà non arrivavano. Abbastanza triste, lasciatecelo dire, anche l’uso di cori d’incitamento registrati, a dare l’impressione di un “tifo” che in realtà c’era solo in parte… solo su In League With Satan, pezzo marziale e perfetto per il palco, il pubblico è sembrato smuoversi davvero da una certa apatia.

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli