Gods Of Metal 2006 – Day Three – 3 giugno 2006

Di Alberto Fittarelli - 21 Giugno 2006 - 0:00
Gods Of Metal 2006 – Day Three – 3 giugno 2006

Foto di Michela Solbiati e Stefano Ricetti

Eccoci giunti alla terza giornata del Gods Of Metal, quella dedicata principalmente al power metal, ma con i due gruppi principali a coprire il settore hard rock d’importanza storica… a voi direttamente il resoconto della torrida giornata del 3 giugno!

Prima della full-immersion power il palco del Gods of Metal vede inaugurare il terzo giorno da un manipolo di fanciulle dal passato punk-rock e dal presente street: un binomio di attitudini che garantisce tanta voglia di suonare e uno show incentrato sulla genuinità e sul divertimento. È così, anche se la maggior parte dei presenti riserva alle quattro ragazzacce un’atmosfera piuttosto freddino, nel poco tempo a loro disposizione le Crucified Barbara propongono qualche brano dal loro debut In Distorsion We Trust (la cui recensione vedrete presto su queste pagine) e spingono, com’è ovvio, su tutti gli stereotipi del genere. Bravine e divertenti, ma incomprese da un pubblico ancora sonnolento e con altre mire musicali.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

C’è chi sostiene che dal vivo i Sonata Arctica non riescano a raggiungere i livelli delle prestazioni in studio: l’esibizione al Gods vuole essere la decisa risposta della band a critiche che hanno ormai fatto il loro tempo. Accolta da una folla piuttosto numerosa, particolarmente in considerazione dell’orario, la band scandinava guidata da un vivace Tony Kakko regala una quarantina di minuti di power metal melodico e scorrevole, secondo la tradizione finlandese. Insieme al bravo chitarrista Jani Liimatainen e all’estroso tastierista Henrik Klingenberg – precisi, puliti e sufficientemente scenografici – a farsi notare è proprio il frontman, e non solo per la tinta decisamente pacchiana dei pantaloni. A suo agio sulle scivolose vette vocali del classico Black Sheep e della trascinante 8th Comandament, espressivo sulle tonalità più distese e suadenti della malinconica My Land, conquista definitivamente la folla con la hit Don’t Say a Word, guadagnando per sé e i compagni uno scroscio di meritati applausi. Una piacevole sorpresa, nonostante i fastidiosi problemi al sonoro.

Riccardo Angelini

È solo mezzogiorno, ma la giornata del Gods of Metal è già nel vivo e a svegliare definitivamente gli intorpiditi spettatori ci pensano gli Edguy con il solito scatenato Sammet che, non curante del caldo e del sole alto nel cielo, inizia il suo personalissimo show fatto di salti, corse e questa volta anche di impensabili quanto pericolose arrampicate sulla struttura del palco. Il poco tempo a disposizione del simpatico frontman non permette errori di scaletta ed ecco che i nostri propongono sin da subito i piatti forti del succulento pasto: si inizia con l’irresistibile Lavatory Love Machine seguita dalla sempre acclamata Babylon e Tears of Mandrake. Tra una risata e l’altra – ma come dice il buon Sammet “non dovete ridere troppo che non c’è tempo” – segue l’unico estratto da Rocket Ride, ovvero la superba Sacrifice che viene interpretata alla grande dal biondo frontman supportato, come sempre, da una esecuzione ottima da parte di tutti i membri della band. Da segnalare uno Jens Ludwing particolarmente pulito negli assoli e dalla solita precisione della sessione ritmica. Purtroppo i quaranta minuti a disposizione sono già quasi esauriti ed è tempo del rush finale che si concretizza con una Mysteria come sempre devastante in sede live e con una sempre piacevole King of Fools. Si chiude con l’immancabile Vain Glory Opera che viene acclamata e cantata da buona parte dei presenti a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, del meritato successo che ha raggiunto la frizzante band di Fulda la quale, anche oggi, ha dimostrato tutta la sua bravura e pazzia nonostante l’ora non fosse delle migliori… da applausi, come sempre.

Marco ‘Homer Jay’ Ferrari

Senza bisogno di risalire fino all’ormai remota era-Matos, si può dire che la band brasiliana abbia visto giorni migliori. Lottando contro una qualità del suono per nulla all’altezza, gli Angra fanno del loro meglio e mettono in campo i pezzi più recenti e power-oriented – i più adatti all’atmosfera del festival – accanto a qualche grande calssico del passato, come Carolina IV e Nothing to Say. Purtroppo però nel camminare sulle orme dell’illustre predecessore il buon Edu Falaschi non mostra certo la medesima dimestichezza sfoggiata sui brani del nuovo corso. Che la band non sia in stato di grazia lo si capisce anche dalla riproposizione del capolavoro Carry On, il cui abbagliante splendore rimane offuscato da un’esecuzione non impeccabile e assai meno coinvolgente di quel che ci si sarebbe potuti aspettare. Show non disastroso ma senza dubbio deludente, soprattutto se confrontato con il terremoto teutonico che sarebbe sopraggiunto di lì a poco…

Riccardo Angelini

Si respira un’insolita aria di derby che quando i Gamma Ray salgono sul palco del Gods of Metal. Nono ci sono dubbi: l’attitudine e l’impatto sonoro è quanto di più vicino si possa avere agli Helloween dei Keeper. Il repertorio è vasto, i minuti non sono tantissimi: è necessario fare sul serio sin da subito. Più che sul serio, i Gamma Ray vogliono fare le cose in grande. Si parte con l’ormai più che collaudata Gardens of the Sinner e una versione al fulmicotone della superba Man of a mission. Entrambe dimostrano il carismatico impatto live che ha sempre contraddistinto i Gamma Ray, con suoni davvero ottimi e potenti e un Kai Hansen che dimostra un’ottima forma vocale oltre che alla sempre presente simpatia. Giusto il tempo di riprendersi ed è la volta di New World Order, che con il suo incedere di Priestiana memoria non fa altro che scatenare ulteriormente il pubblico. Arriva il momento di attingere da l’ultimo nato, Majestic, con l’allegra e veloce Fight e Blood Religion. Quest’ultima, seppur ancor giovane all’anagrafe, è già fortemente candidata a divenire un classico della band in sede live. Tutto bene ma è da qui che lo show cambia definitivamente marcia: la successiva Heavy Metal Universe sveglia completamente gli ultimi intorpiditi e apre le danze per il grande momento targato Zucche. Al posto delle varie “Land of the Free” o “Somewhere out in Space” ecco che partono le note di Ride the Sky, pilastro dei primissimi Helloween che andrà a comporre con Future World e l’immancabile I Want Out un medley memorabile di rara potenza e bellezza. L’Idroscalo è in delirio. Dopo tanta grazia è giunta l’ora dei saluti, ma non prima di essere nuovamente affascinati dalla bellezza di Rebellion in Dreamland, perché questi sono i Gamma Ray, ed è giusto che l’epilogo sia affidato a un brano di casa. Un concerto magnifico e da ricordare, in assoluto uno dei migliori dell’intera kermesse meneghina, in cui i nostalgici del power metal più puro si sono sentiti a casa.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini, Marco ‘Homer Jay’ Ferrari

Le recenti vicissitudini occorse in seno alla band finlandese avevano suscitato numerose perplessità alla vigilia del suo ritorno sui palchi del Gods of Metal. Tuttavia, sospesa l’esplorazione di nuovi lidi musicali inaugurata nell’ultimo disco, gli Stratovarius si ripresentano con il loro arsenale di classici al gran completo: da Hunting High and Low a Black Diamond, passando per Paradise, Speed of Light, The Kiss of Judas e pure per la bella e talvolta dimenticata A Million Light Years Away. Buona impressione fa anche United, unico tra i nuovi pezzi a trovare spazio accanto alle storiche Strato-song. Il sempre più enorme Tollki pare dal canto suo sulla via del recupero della forma migliore – almeno dal punto di vista musicale – mentre il pur bravo Kotipelto, nell’occasione più statico del lecito, tradisce un certo affaticamento sui passaggi più impegnativi. Sempre impeccabile Johansson, preciso ma monotematico Michael, dinamica e volenterosa la recluta Lauri Porra. Alla fine dell’esibizione pare di poter dire che i fan se ne siano tornati a casa più o meno soddisfatti, mentre chi non amava il sound della formazione finnica difficilmente avrà cambiato idea in quest’occasione.

Riccardo Angelini

Quando a fianco del palco spuntano due enormi zucche gonfiabili è segno che è giunto il momento degli Helloween. L’ora a disposizione delle zucche di Amburgo viene aperta con The King for a 1.000 Years. Scelta pessima: per quanto sia un’ottima song e venga egregiamente interpretata da un Deris sempre più a suo agio anche sui pezzi più difficili, i non fedelissimi della band si vedono costretti ad annoiarsi per oltre dieci minuti in attesa di qualche pezzo dal traino più adatto a un festival. A dare subito mordente alla prestazione segue la consueta Eagle Fly Free sempre amata e cantata dal pubblico. Qui cominciano i segni di cedimento di Deris. Al cavallo di battaglia targato Keeper II segue l’unico estratto dal controverso Rabbit Don’t Come Easy, ovvero la piacevole Hell Was Made in Heaven. Gli Helloween osano portando sul palco A Tale That Wasn’t Right, ma la ballad mette in seria difficoltà il simpatico frontman e le corde vocali ne risentiranno per la restante durata dello show. Il seguente trittico rappresentato da Mr. Torture, If i Could Fly e Power confermano invece quanto di buono fatto dagli Helloween nella storia più recente: ottime song, brevi e festaiole, rese ancor più accattivanti dalla trasposizione in sede live (anche se con la sessione ritmica non esente da errori). Lo show, per quanto musicalmente apprezzabile, appare un po’ troppo statico, eccezion fatta per il solito saltellante Grosskopf. Il duo Weikath/Gerstner manca di dinamicità e raramente offrono un supporto visivo complementare e adatto alle coordinate stilistiche dei pezzi proposti. Si torna quindi a ripescare nel passato più remoto della band con l’esecuzione di un brano che crea un certo imbarazzo nel pubblico: a distanza di un’ora l’Idroscalo si vede recapitare una seconda Future World. Il paragone non esiste: la versione targata Helloween è decisamente meno aggressiva e riuscita di quella proposta da Kai Hansen e compagni. Dopo i consueti cori inizia una lunga presentazione della band che se da una parte dimostra le ottime doti di intrattenitore di Deris, dall’altra accorcia inevitabilmente la scaletta di un brano: quel brano è I Want Out. A voi ogni congettura. Arriva il momento di chiudere lo show con la recente e poco ispirata Mrs God e la ben più acclamata Dr. Stein, classico di alto retaggio dell’era Keeper.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini, Marco ‘Homer Jay’ Ferrari

Non si può oltrepassare, facendo finta di nulla, il paragone che è scaturito automaticamente in ogni testa scapocciante del Gods of metal 2006, anche in quelle annebbiate dalle gioie della birra e anche in quelle meno interessate al mondo del metal. Lo testimonia questo breve aneddoto: al termine dell’esibizione degli Stratovarius un addetto al merchandising mi ferma e mi chiede: “Chi suona adesso?”. Io gli rispondo: “Helloween”; e lui: “Ma come, non hanno suonato prima?”. Teoricamente no, praticamente sì: oggi, i Gamma Ray sono la band che più incarna lo spirito e l’anima della fu gloriosa formazione che alla fine degli anni ’80 diede alla luce un nuovo modo di fare heavy metal. Sensazione che ho potuto riscontrare durante una chiacchierata con un Kai Hansen contentissimo dello show, costretto a essere politicamente corretto ma incapace di nascondere una certa soddisfazione per la vittoria nel derby del Gods of Metal 2006… Un’ultima considerazione prima di tornare al resoconto musicale della giornata. In molti si chiedono che sangue scorra tra Kai Hansen e Michel Weikath. Bene, non è che sia chiarissimo. Al Wacken 2005 suonarono insieme e Weiky annunciò Kai come “un caro vecchio amico”… ma si sa; il palco potrebbe nascondere tante cose. Io vi riporto alcune coincidenze sospette, poi voi trarrete le vostre personali conclusioni. Al GoM 06 gli Helloween hanno fissato la loro conferenza stampa esattamente cinque minuti dopo l’inizio del concerto dei Gamma Ray, hanno tardato 15 minuti ad arrivare al luogo delle interviste e hanno concluso esattamente sul finale dei Gamma Ray. Inutile dire che dopo il ritardo iniziale io sia fuggito, non disposto a tollerare alcuni incerti atteggiamenti e soprattutto non disposto a perdermi una prestazione dei Gamma Ray che si faceva di minuto in minuto sempre più accattivante; ma i dubbi restano…

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

Personalmente ennesima volta che vedo i Motorhead dal vivo. Come giustamente mi faceva notare l’amico e collega Marcello Catozzi una mitragliata di suono siffatto solo Lemmy riesce a ottenerlo, nonostante le migliaia di tentativi d’imitazione negli anni. L’impressione però è che i Nostri facciano il loro compitino – più che dignitosamente, s’intende! –, come ormai da copione durante i festival. C’è poco da fare, i Motorhead, come parecchie altre band – Def Leppard e Whitesnake, tanto per fare dei nomi – danno il meglio durante il loro tour, quello vero e proprio, dove non hanno limiti di tempo e si possono organizzare a loro piacimento. Complice una scaletta non proprio esaltante Lem & Co. non hanno infiammato la platea come ci si poteva aspettare, almeno a mio personalissimo parere. Pezzi tutto sommato anonimi hanno tolto dalla scaletta classici che amo come Iron Fist e Orgasmatron. Di contro invece l’apprezzatissima e inattesa Dancing on your Grave ha risollevato una prova priva di quel mordente che i Motorhead in altre occasioni hanno dimostrato di saper avere ancora. Chiusura di default con Ace of Spades e Overkill e il solito Mikkey Dee sugli scudi.

Stefano Ricetti

Correva l’anno 1996 quando i Def Leppard si fecero vedere per l’ultima volta in Italia al Palalido di Milano (davanti a un pubblico veramente esiguo per quella che era la capacità della location, tra l’altro). Dopo ben dieci lunghi anni, invece, ce li ritroviamo al Gods of Metal in veste di co-headliner. In questo lasso di tempo la band ci ha fatto soffrire sotto molti punti di vista: dalle dichiarazioni anti-heavy metal da parte di quasi tutti i componenti del gruppo ai dischi poco metal, dal look serioso all’ultima raccolta di cover. Con queste premesse, da grande amante della band anni ’80 (diciamo fino ad Adrenalize, tanto per intenderci), non vedo comunque l’ora di rivederli all’opera dopo così tanto tempo. L’inizio lascia un po’ il pubblico paralizzato e perplesso a causa di un paio di scelte discutibili… Il primo e il terzo pezzo della setlist sono infatti due cover tratte appunto dal “nuovo” Yeah!. Capisco fare pubblicità a una nuova release, ma credo che in molti abbiano pensato che sarebbe stato meglio inserire qualche vero classico targato Def Leppard in più. In ogni caso il concerto è ottimo: tirato, senza pause, coinvolgente e con esecuzioni ottime e precise. La band, infatti, è famosa per la sua storica compattezza, che si riflette anche on stage. A parte le due cover iniziali, la band propone tutti i cavalli di battaglia possibili: Let’s Get Rocked, Animal, Rock of Ages, Pour Some Sugar on Me, Rocket, Photograph, Armageddon It, Hysteria, Make Love Like A Man… Addirittura un’inaspettata (almeno da parte mia) Promises. Il pubblico italiano ha apprezzato. Ora si spera di non essere tagliati fuori dai prossimi tour per altri dieci anni, prima di tornare a urlare tutti insieme …do you wanna get rocked?

Paola Bonizzato

Ore 22.00: it’s time to rock! I Whitesnake prendono posto sul palco. Davanti a me si piazza proprio Doug Aldrich: che piacere rivederlo a due passi dopo le emozioni dell’ottobre scorso a Londra (“Holy Diver Tour” al seguito di Ronnie James Dio)! Più indietro, Tommy Aldridge si accomoda dietro le pelli; di fianco a lui Timothy Drury si sistema alle tastiere e, sulla sinistra, si posizionano Reb Beach e Uriah Duffy. Dulcis in fundo, arriva David Coverdale, che indossa jeans e camicia bianca sbottonata, come di consueto. Si comincia con le inconfondibili note di Burn, che subito infiammano l’intera platea. Siamo in piena era Deep Purple ed è già delirio. Il nostro frontman si agita come un indemoniato, brandendo l’asta del microfono con i suoi tipici movimenti: sembra quasi che voglia conficcarla in terra, in perfetta sintonia con gli stacchi della band. Scattante come una mosca corre e si posa da una parte all’altra, ammiccando al pubblico con quelle sue movenze così sensuali che lo hanno reso famoso nei lustri passati. A Burn si alterna un’altra mazzata micidiale come Stormbringer, sapientemente inframmezzata con il brano precedente da questi straordinari musicisti. Vista la portata dei due pezzi iniziali, intuisco che stasera ci sarà proprio da divertirsi. Da questo momento in poi ci si immerge in pura epopea Whitesnake: dalla mia posizione i suoni mi sembrano decisamente buoni, esclusa la voce, che non mi arriva forte e chiara; mi riprometto di ascoltare il sound con maggiore attenzione, quando gli addetti della security abbaieranno per spingere il gregge di fotoreporter fuori dal settore. Il tempo di goderci la stupenda Love Ain’t No Stranger, condita dalle classiche espressioni facciali di Coverdale, e usciamo dall’area privilegiata, per immetterci nella zona retrostante (quella dei primi fortunati 3.000, per intenderci), dove ci piazziamo piuttosto centralmente, per poter fruire di una discreta acustica. Ci accoglie un favoloso medley con i più famosi successi di una gloriosa carriera: Ready and Willing ci riporta ai fasti del passato, con una ritmica tosta e ben impostata che sorregge l’intera struttura del brano: ci lasciamo ammaliare volentieri dalle note trascinanti, partecipando al coro. “Sweet satisfaction…”: l’ispirato vocalist ingaggia il familiare botta e risposta col pubblico. “Sweet satisfaction…”: vorremmo gustarci a lungo questo spontaneo duetto. “Sweet satisfaction…”: artiglio la spalla di Steven e, in preda a un attacco di euforia, gli dico: “questa è storia!”. Giunge il momento dell’ultimo stacco, sancito dal finale pirotecnico: “Ready and willing!”. L’ovazione è assordante.

In un’atmosfera di tale suggestione, gli inconfondibili arpeggi di chitarra introducono una delle più emozionanti ballad mai concepite da Mr. Coverdale: Is This Love, nella quale non si può proprio fare a meno di cantare (l’impresa, fra l’altro, si rivela più abbordabile del previsto, considerato che la canzone è eseguita con una tonalità piuttosto bassa). Le voci dei presenti si fondono in un’unica invocazione che sale al cielo, per l’occasione impreziosito di stelle brillanti. Si accendono d’incanto centinaia, migliaia di fiammelle in mezzo alla platea completamente estasiata, mentre uno spicchio luminoso di luna si staglia nel profondo blu, in alto sulla destra del palcoscenico, e costituisce una degna cornice a questa esibizione così densa di pathos.
Non c’è tempo per esultare: incombe il ‘Guitar Solo’ di Doug Aldrich, per la gioia di tutte le fanciulle (e non soltanto per loro). A tale proposito, ci terrei a sottolineare i progressivi miglioramenti che il nostro guitar hero ha dimostrato nel corso della sua militanza al cospetto di Sua Maestà Coverdale, allorché gli fu assegnato l’oneroso compito di avvicendare un “mostro sacro” come Adrian Vanderberg. La sua costante applicazione, le sue doti e la sua grande professionalità hanno concorso a trasformarlo da timida comparsa in autentico protagonista della scena mondiale. Il suo assolo è il frutto della sua formazione, ma soprattutto della sua continua ricerca, che attinge alle radici del blues per fondersi con i canoni del metal più classico, grazie a un’indovinata timbrica “fucking heavy”. Dopo questa gradita performance, peraltro di altissimo livello tecnico, riecco la band al completo, pronta a regalarci altre perle quali Crying in the Rain. Ora posso sentire bene la voce, e devo purtroppo prendere atto del fatto che le mie sensazioni iniziali stanno trovando una conferma: DC non si esprime più ai livelli di un tempo. Gli acuti sono uno spietato banco di prova e, sebbene grazie al suo mestiere riesca a “tirarsi fuori” dalle situazioni difficili, ahimè, le sue corde vocali non sono più quelle di prima. C’è spazio anche per un Reb Beach un pochino oscurato dalla presenza (discreta ma decisa) di Doug. Il ritmo è sostenuto, il sound granitico, direi quasi perfetto: un amalgama che solo una grandissima band è in grado di fornire. Dal punto di vista strumentale, i musicisti sono quanto di meglio possa offrire attualmente il panorama mondiale e la dimostrazione oggettiva, al di là di ogni dissertazione, è qui, davanti ai nostri occhi, stasera.
Un altro momento significativo è rappresentato dal Drum Solo: orecchie e occhi spalancati per godersi pienamente uno dei più grandi drummer del pianeta! Tommy Aldridge si lancia in una serie di rullate da paura, sorrette da un possente lavoro di gambe, al quale fa seguito una dimostrazione assai singolare: il finale dell’assolo a mani nude, con una giusta concessione allo spettacolo che viene accolta dagli immancabili urli e applausi della folla.
Si prosegue con altre splendide gemme del passato, che resteranno per sempre incastonate nel firmamento musicale: Ain’t No Love in The Heart of the City ci offre un’altra occasione di partecipare al coro, in un fantastico rapporto di osmosi con questa favolosa band capace di farci viaggiare nel tempo sull’onda delle emozioni. Slide It In permette a David di esibirsi nelle sue personalissime movenze di anca, che hanno fatto impazzire generazioni di donzelle nei decenni scorsi, grazie ai celebri video che hanno caratterizzato gli anni ‘80. In Give Me All Your Love lo scatenato leader pare abbandonarsi ad un amplesso con il microfono, mentre con Here I Go Again il coinvolgimento torna ad essere totale, fino alla chiusura, di enorme spessore e intensità.
Take Me With You fa scattare un altro piacevole flash back, evocando quei vecchi indimenticabili fondatori del Serpente Bianco, che rispondono ai nomi di Bernie Marsden e Micky Moody. I suoni sono più “americani” rispetto alla versione originale, ma l’energia che questa canzone riesce a trasmettere è la stessa.
Infine, per chiudere alla grande: Still of the Night, pirotecnica e sfavillante, dal ritmo incalzante e capace di coinvolgere tutti; DC non mostra segni di stanchezza, perlomeno dal punto di vista fisico, in quanto risulta ipercinetico come all’inizio dello show. Alla fine il pubblico esplode in un meritatissimo tributo a una band che – non mi stancherò mai di ripeterlo, anche a rischio di diventare un po’ retorico – ha fatto la storia.
Ora si sciolgono le file e lo sciame di migliaia di appassionati si disperde lentamente, mentre si diffondono le note di We wish you well. Con la mente vado al 1997, allorché ebbi la fortuna di assistere ad un memorabile show di Coverdale & C., nel quale il nostro eroe si era presentato in grande spolvero e il finale era stato assai commovente, con quella canzone cantata in modo stupendo e così toccante… Sono trascorsi quasi dieci anni e il Serpente Bianco è ancora vivo e vegeto, anche se – pur con una grande tristezza nel cuore – devo riconoscere che l’inesorabile incedere del tempo ha lasciato segni tangibili in colui che ritengo una delle più grandi figure della storia del rock. DC è stato un artista di statura immensa e, probabilmente, lo è ancora in un contesto di studio, ma purtroppo – secondo la mia modesta opinione – non ha più la potenza e l’estensione vocale che l’ha contraddistinto negli ultimi tre decenni. Come dicevo, in versione “live” le magagne saltano fuori impietosamente, nonostante l’uso smodato dei riverberi e di tutti gli effetti che l’elettronica è in grado, oggi, di offrire. Riflettendo per un istante sulla perfezione palesata dall’ultimo DVD (uscito nel marzo del 2006), mi chiedo se la tecnologia avanzata rappresenti effettivamente un passo avanti o se, piuttosto, non serva a confondere le idee agli spettatori (spesso alquanto sprovveduti) e agli stessi fan (spesso un po’ troppo di parte). La verità, probabilmente, sta nel mezzo, nel senso che i “taroccamenti” potrebbero trovare una giustificazione soltanto quando il loro utilizzo sia diretto a correggere qualche imperfezione in ambiente “live”, tipo: fischi dell’impianto, fruscii, colpi involontari o altre interferenze, senza però incidere su quello che è il prodotto vero e proprio, l’essenza, vale a dire la performance della band. In caso contrario, è inevitabile che venga meno l’immediatezza e la spontaneità che un concerto trasmette, con tutti i suoi difetti e imperfezioni.
Detto questo, va affermato senza alcun dubbio che i Whitesnake hanno fornito, stasera, una prova che si è rivelata pienamente all’altezza delle aspettative, sul piano strumentale ed esecutivo, e lo stesso David Coverdale ha confermato di essere uno spettacolare animale da palcoscenico, dalle innate qualità e dal carisma intatto. La scelta degli Headliners non poteva essere più azzeccata ed il finale ha suggellato nel modo migliore una memorabile giornata di musica.

We wish you well.

Marcello Catozzi