Report: Gods of Metal 08 – Day II (28/06/08)

Di Nicola Furlan - 11 Luglio 2008 - 12:00
Report: Gods of Metal 08 – Day II (28/06/08)

DAY 2 – 28/06/2008

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SLAYER
CARCASS
MESHUGGAH
TESTAMENT
AT THE GATES
DILLINGER ESCAPE PLAN
BETWEEN THE BURIED AND ME
STORMLORD
BRAINDEAD
OLTREZONA

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[Foto a cura di Nicola Furlan]

Ci sono almeno tre ragioni per le quali la seconda giornata del Gods Of Metal poteva essere da qualcuno considerata la più interessante della manifestazione. Innanzitutto per la tipologia di band convocate, tutte provenienti dalla falange più estrema del metal di ieri e di oggi, secondo una fortunata formula già felicemente sperimentata nella giornata di apertura del Gods Of Metal 2006. In secondo luogo per il duplice evento della reunion di Carcass e At The Gates, gruppi molto amati dalle nostre parti il cui ritorno sui palchi ha dato la possibilità ai fan più giovani di colmare un vuoto nei loro curricula dal vivo. Infine per la qualità del bill nel suo complesso: una sfilata di nomi importanti e molto attesi, fra i quali forse quello più familiare e forse in questo senso meno interessante è proprio quello degli headliner Slayer. C’è poi un’altra ragione, aliena al profilo puramente musicale, per la quale la giornata di sabato si farà ricordare nella memoria dei presenti, ovvero la coincidenza di tempi e luoghi (!) con il Gay Pride bolognese. Lasciando all’amministrazione comunale gli interrogativi circa l’opportunità di affiancare due manifestazioni così diverse nello stesso giorno, in questa sede ci atterremo all’unico aspetto che qui interessa – la musica – ripercorrendo di seguito le esibizioni delle singole band.

Riccardo Angelini

OLTREZONA
(A cura di Nicola Furlan)

L’anno scorso è toccato ai veneti Outsider aprire la giornata del Gods of Metal Part II. Quest’anno a vincere la categoria “best metal” al concorso per band emergenti ‘Suonica’ sono stati gli Oltrezona, band veneziana dedita ad un metal fortemente influenzato dalla componente hard core. Non si parla di vero e proprio metalcore stile Hatebreed in quanto sembra che i nostri propendano per una spiccata attitudine al thrash metal, per intenderci affine agli ultimi Machine Head.

La band propone ritmiche coinvolgenti, cori aggressivi e spiccati momenti groove. I brani La Raza e Rispect for my Friend sono due esempi lampanti di quale sia l’obiettivo che questi ragazzi si propongono: aggressività a fiumi e impeto mosh, secondo la tradizione newyorkese di primi anni 90. Una formazione davvero interessante, un altro prodotto nostrano da seguire e che dimostra quanto sia florida la scena italiana in termini qualitativi. Il gruppo gode, come la giornata precedente, di un settaggio suoni incredibilmente limpido anche se di volumi contenuti. Buona esibizione. Bravi.

BRAINDEAD
(A cura di Nicola Furlan)

I Braindead sono la band promossa alla partecipazione di questo festival grazie alla vittora del “demo contest” indetto dall’organizzazione del Gods Of Metal 2008. I quattro piemontesi hanno una lunga carriera alle spalle, ma forse risentono un po’ dell’emozione e del caldo. I pezzi tratti dall’ultimo studio album “Double Face” convincono perchè ben calibrati sugli stilemi che hanno fatto la fortuna del thrash old-style, ma nel complesso scorrono via senza coinvolgere più di tanto. Sarà l’ora di metà mattina, sarà la stanchezza della giornata precedente, ma non ho colto quell’impulso che i grandi maestri, cui la band si ispira, hanno saputo trasmettere in passato.

Il thrash è un atteggiamento artistico molto genuino, difficilmente riproducibile se manca la corretta partecipazione dei musicisti che lo eseguono. Una presenza scenica più spontanea e verace, forse meno attenta alla perfezione esecutiva, avrebbe fatto gustare ai presenti un ottimo antipasto in attesa del ricco piatto che Chuck Billy e soci avrebbero di lì a poco servito ad una folla in delirio. Non perderò occasione di rivederli, nella speranza di poter riconsiderare le mie impressioni.

STORMLORD
(a cura di Angelo ‘KK’ D’Acunto)

Forti dell’uscita di Mare Nostrum, i capitolini Stormlord si presentano sul palco del Gods Of Metal con una formazione leggermente rimaneggiata a causa dell’assenza del tastierista Simone Scazzocchio. I minuti a disposizione sono poco più di venti e il gruppo romano decide d’incentrare tutto il set solo ed esclusivamente sui pezzi estratti dal nuovo album.

Ed è così che il suono di un sitar introduce la furiosa Legacy Of The Snake eseguita da una band che si dimostra essere una vera garanzia in sede live. A guidare le danze come sempre lo screaming rabbioso di Cristiano Borchi e il drumming preciso di David Folchitto. Altra prova degna di nota è quella del bassista Francesco Bucci: esecuzione impeccabile a livello ritmico e grande carisma quando, fra una pausa e l’altra, s’improvvisa narratore per presentare i pezzi proposti.

Esecuzione perfetta quindi, aiutata da suoni settati ottimamente (così come sarà per quasi tutti i gruppi della giornata, Testament esclusi…). L’unica pecca risiede nei pochi minuti a disposizione e nella fin troppo bassa posizione in scaletta, per una band con tutti questi anni di esperienza alle spalle ci si sarebbe aspettata una posizione più “gratificante”. Ma nonostante tutto, il gruppo non demorde e riesce a continuare il suo show proponendo al pubblico di bologna altri due nuovi pezzi come la violentissima And The Wind Shall Be My Name e tutto il furore epico della title-track del nuovo disco, Mare Nostrum. Coinvolgenti e convicenti come non mai, ma non è di certo una novità.

BETWEEN THE BURIED AND ME
(a cura di Pier Tomasinsig)

Credo che i Between The Buried and Me siano stati, per molti dei presenti (almeno per quelli di ampie vedute e dai gusti raffinati), una delle sorprese più gradite del festival assieme ai successivi Dillinger Escape Plan. Personalmente attendevo con estremo interesse gli statunitensi, vista l’ottima prova offerta con l’ultimo studio album “Colors”.

Cionondimeno mi hanno egualmente stupito, nel senso certamente positivo del termine. Non è facile catalogare la musica proposta dai Between the Buried and Me: per semplicità diciamo che si tratta di una sorta di progressive metalcore con residue influenze death (sempre più esigue col passare degli anni). Non è facile neppure suonarla, una musica del genere: i nostri tuttavia hanno dimostrato grande classe e capacità tecniche ben sopra la media, tanto è vero che oggi sono stati praticamente perfetti. Passaggi ipertecnici e ai limiti del virtuosismo si accompagnano a digressioni malinconiche e sognanti e a momenti di maggiore impatto, dove Paul Waggoner e Dusty Waring inanellano riff molto complessi e aggressivi. Molto bene anche il frontman Tommy Rogers, diviso tra il suo ruolo di cantante e quello di tastierista, anche se la voce non si è sentita troppo bene, specialmente nei versi cantati in clean.

Scaletta quasi totalmente incentrata su “Colors”, dal quale gli statunitensi eseguono il trittico finale ‘Prequel to the Sequel’, ‘Viridian’ e ‘White Walls‘, con un solo pezzo da “Alaska” a rappresentare la passata (e nutrita) discografia della band. Tanto bravi quanto umili insomma, anche se forse un po’ troppo seriosi. Del resto è chiaro che non è questa la sede per apprezzare adeguatamente una proposta musicale così complessa e ricercata. Da rivedere assolutamente.

DILLINGER ESCAPE PLAN
(a cura di Angelo ‘KK’ D’Acunto)

Definire i Dillinger Escape Plan dopo averli visti dal vivo? Pazzi. Non ci sono altri aggettivi per descrivere l’esibizione del combo del New Jersey (e a vedere la musica che compongono, sfido chiunque a non darmi ragione).

Greg Puciato e soci hanno messo in atto uno show pirotecnico dal punto di vista della presenza scenica e impeccabile per quanto riguarda l’esecuzione dei pezzi. Lo stesso vocalist americano si è dimostrato essere un frontman carismatico e spericolato come pochi (formidabile la sua arrampicata sui piloni al lato del palco). Non da meno la prestazione degli altri componenti della band, scatenati fra salti sulle casse spie, sulla batteria e addirittura sugli amplificatori.

Per quanto riguarda i pezzi suonati (in maniera ineccepibile), la setlist del gruppo mira a pescare in tutta la discografia, concentrandosi sopratutto su brani estratti dai lavori più recenti. Ottima l’esecuzione della scatenata Milk Lizard (highlight assoluto di Ire Works) e non da meno la più sperimentale Black Bubblegum. Lo show volge al termine con Sunshine The Werewolf (direttamente dal capolavoro Miss Machine) che mette la parola fine a quaranticinque minuti di set intensi e coinvolgenti. Sicuramente fra i migliori act di questa seconda giornata del festival.

AT THE GATES
(A cura di Davide ‘Ellanimbor’ Iori)

Posti molto in basso in una scaletta che per forza doveva scontentare qualcuno (tantissimi gruppi culto in una sola giornata) gli At The Gates sono stati accolti da una folla in vero delirio che per le prime sei o sette canzoni non ha mai smesso di inneggiare, con cori e ovazioni, a Tompa Lindberg e soci nei momenti di silenzio tra un pezzo e l’altro. I nostri dal canto loro non hanno di certo mancato di mettere del proprio in uno show che è diventato uno dei migliori momenti del Gods 2008, con suoni ottimi ed una prestazione da primato sul palco, sebbene i volumi concessi da Live non fossero certo il top.

Pur non dimenticando di aver prodotto almeno altri tre ottimi dischi i cinque Svedesi hanno puntato molto sulla riproposizione dei brani di Slaughter of the Soul, sicuramente vetta della loro carriera, ma anche grandissimo peso da portarsi appresso, in quanto oggi come oggi sono in tantissimi coloro che conoscono soltanto quel disco ed ignorano tutto il resto della loro produzione. Si comincia dunque proprio con Slaughter of the Soul per poi continuare con pezzi estratti dall’omonimo disco disco fino a Suicide Nation, dopo la quale avviene la prima digressione verso il passato, digressione che tuttavia non dura a lungo in quanto subito si torna a bomba su Slaughter con una Under a Serpent Sun da applausi. Ancora una volta la band dimostra di essere più a suo agio a livello di suoni ed esecuzione sulle canzoni tratte dal suo ultimo disco, non è inutile notare infatti come le distorsioni delle chitarre siano praticamente uguali a quelle sentite su di esso.

Si conclude con Blinded By Fear, ma non prima di aver potuto ascoltare anche The Swarm, Windows, Kingdom “fuckin” Gone e tante altre, cosa non male in quanto sarebbe davvero un peccato che questa reunion non servisse, oltre che a riportare gli At The Gates sul palco, anche a far scoprire cosa essi sono veramente a persone che li nominano spesso, ma che, forse, non li conoscono abbastanza. Bentornati.

TESTAMENT
(A cura di Federico ‘Immanitas’ Mahmoud)

Chuck Billy e soci hanno un conto aperto con il Gods of Metal. Ricordate nel 2004? La band va fuori tempo massimo (per una manciata di minuti) e Disciples of the Watch, ciliegina sulla torta di un set molto applaudito, viene troncata dal repentino spegnimento dell’impianto. Quest’anno si è rispettata la scaletta, ed è già una notizia. Purtroppo le buone nuove finiscono qui: perchè la band di Oakland, per quanto ispirata nella scelta ed esecuzione dei brani, ha dovuto far fronte ai suoni peggiori della tre giorni.

Detto fuori dai denti, non è possibile trovarsi a cinque metri in linea d’aria da Eric Peterson e attendere invano l’attacco di Over the Wall, strozzato da una chitarra inanimata. I rimpianti aumentano all’annuncio di una setlist da infarto: seguono in rapida successione Into the Pit, Apocalyptic City, Practice What You Preach e The New Order, poker d’assi che meriterebbe senz’altro un trattamento degno della propria levatura. La melodica Alone in the Dark emerge dalla melma sonora che imbriglia ogni strumento, a cominciare dalla coppia d’asce Peterson-Skolnick; meglio anche More Than Meets The Eye, granitico mid-tempo che apre The Formation of Damnation, risultato ancora più solido in chiave live. Il peggio è riservato agli episodi più tirati, da The Preacher a D.N.R. (pura cacofonia), che torna a grande richiesta negli show del gruppo.

In queste condizioni è difficile giudicare l’operato del gruppo, parso comunque in palla sin dalle prime note dell’opener; detto dei limiti tecnici che hanno attanagliato i chitarristi, registriamo l’ottima performance di Paul Bostaph e la conferma di Chuck Billy ai livelli mostrati in studio. Henchman Ride (tra gli episodi più riusciti dell’ultimo lavoro), 3 Days In Darkness e Disciples of the Watch completano un’esibizione nata sotto una cattiva stella, nonostante la temibile reputazione del gruppo sui palchi di mezz’Europa. Sfortuna o casualità, l’augurio è che la ruota cominci a girare dalla parte giusta, perchè il bonus è esaurito.

MESHUGGAH
(A cura di Davide ‘Ellanimbor’ Iori)

E’ da un po’ di tempo che nutro la convinzione che i Meshuggah siano dei musicisti geniali, ma soltanto quello. Quando si va a guardare tutta quella serie di cose che circondano una band che non sono direttamente collegate alla sua musica, ma ne influenzano grandemente la fruizione, i 4 + 1 di Umea dimostrano lacune più o meno gravi che sono del tutto ininfluenti per l’ascoltatore saltuario, ma suonano un po’ di presa in giro verso il fan sfegatato. Dopo tour annullati, booklet scarni e concorsi farsa ecco che gli svedesi giungono al Gods Of Metal e, guarda caso, divengono gli unici delle tre giornate ad avere problemi tecnici che li costringono a cominciare in ritardo lo spettacolo: il rack di amplificatori di Marten Hagstrom si mette a fare le bizze e, tra feedback e rumori vari, i nostri ci mettono venti minuti buoni a venirne a capo, con in più lo spiacevolissimo effetto scenico di vedere i musicisti già sul palco prima che si cominci a suonare.

Finalmente si parte e fin da subito si capisce che la scaletta verterà principalmente su Nothing e Obzen; niente di sbagliato si direbbe, tanto più che i nostri si sono presentati sul palco con la strumentazione nuova: chitarre Ibanez a 8 corde, amplificatori Line6 mandati in diretta dentro al mixer senza microfonazione e batteria Sonor con cassa triggerata. Il fatto è che, forse complice la situazione “festival” che non permette di fare un soundcheck perfetto e di adattare i suoni a ciascuna canzone, i nostri non riescono ad ottenere il massimo a livello di timbro, ci si ritrova quindi ad ascoltare canzoni suonate alla perfezione e con una botta incredibile che tuttavia perdono quel nonsochè di cibernetico che rende i Meshuggah unici nel loro genere. Bleed, eseguita in versione singolo e tagliata prima della parte centrale rallentata, si ritrova dunque un po’ castrata nella sua disumanizzate perfezione, così come Electric Red e Pravus, mentre invece pezzi tratti da Nothing come Stengah, Rational Gaze e Perpetual Black Second vengono molto meglio, ma comunque più in versione “rossa” che “blu” (con riferimento alle due edizioni del disco). La più grossa sorpresa viene comunque da Future Breed Machine, veramente da applausi anche se eseguita con una strumentazione differente da quella originale, che esce quindi come il miglior brano del lotto e non per niente viene posta in chiusura.

Grandissimo show dunque quello dei Meshuggah, suonato alla perfezione da una band in formissima che trova in Tomas Haake la sua punta di diamante (grandissimi i suoi exploit poliritmici) ed in Fredrik Thordendal un solista dallo stile unico, ma anche uno show incompleto, caratterizzato da una scaletta fisiologicamente corta e dunque privata di alcuni dei loro capolavori (New Millennium Cyanide Christ, Concatenation, Combustion, Obzen, Inside What’s Within Behind, I...) e da un atteggiamento sul palco un po’ superficiale, con lunghe interruzioni tra una canzone e l’altra per bere. D’altronde i Meshuggah sono così, prendere o lasciare.

CARCASS
(A cura di Riccardo Angelini)

Non saranno gli headliner, ma per quanto riguarda il sottoscritto sono loro la band più attesa dell’intera manifestazione. Tredici anni dopo il loro canto del cigno, tornano in scena i Carcass in formazione (quasi) originale, con l’unica novità dell’innesto del batterista Daniel Erlandsson, importato da Michael Amott direttamente dai suoi Arch Enemy. Senza troppi giri di parole: quella dei Carcass versione 2008 è stata un’esibizione da paura.

L’incipit della scaletta è da collasso immediato. Una dopo l’altra Inpropagation, Buried Dreams, Corporal Jigsore Quandary e Carnal Forge travolgono la folla esaltata, fra riff assassini, letali cambi di tempo e soli di precisione chirurgica. Lungi dallo spezzare la continuità dell’esibizione, le mille intro incanalano la tensione presentando come biglietti da visita non convenzionali la gran parte dei brani. Tra un classico e l’altro i quattro là sopra gettano in pasto al pubblico i brandelli macilenti di ‘Genital Grinder’ e ‘Rotten To The Gore’, e si tolgono la soddisfazione di ridare lustro alle sfacciate melodie di Keep On Rotting, salutata con il medesimo calore riservato a classici come Reek Of Putrefaction o No Love Lost. Ma il boato più grande è quello che accoglie lo sfortunato Ken Owen, salito sul palco nel bel mezzo dello show per rivolgere il proprio saluto ai fan dei Carcass di ieri e di oggi.

Il lungo applauso che risponde al suo breve discorso è il giusto tributo per un uomo che tanto ha dato a una band in cui per ragioni purtroppo note non può più essere protagonista. Poi è di nuovo musica, fino a che le rasoiate di una Heartwork da infarto non pongono il sigillo finale sul concerto dagli inglesi. Tutto ciò che si poteva chiedere a questa band, i presenti lo hanno avuto. Al Gods Of Metal 2008 sono passati i Carcass, e chi c’era può star ben certo che di questo giorno si ricorderà molto a lungo.

SLAYER
(A cura di Fabio Vellata)

Sono le ore 21.00 di un caldo ed afoso sabato estivo. La giornata, sino a qui torrida, sta per ricevere il definitivo lasciapassare verso i più profondi e mefitici meandri infernali, attraverso l’esibizione di una delle più grandi ed influenti band che la storia del metal estremo abbia potuto annoverare tra le proprie fila. Gli immensi e leggendari Slayer. L’atmosfera è palpabilmente elettrica sin dagli istanti a ridosso dell’entrata in scena dei quattro musicisti ed il brulicare della folla si rende sempre più spasmodico, nell’attesa di vedere gli incubi dipinti da Araya e soci, materializzarsi ancora una volta on stage con tutta l’esuberanza e la potenza scenica da sempre patrimonio esclusivo del combo americano. La partenza a dire la verità, non è delle migliori.
“Darkness of Christ” e “Disciple”, estratti da God Hates Us All, aprono l’evento in modo contraddittorio e poco convincente. Ad un assalto sonoro impetuoso e, al solito, compatto come un cubetto di porfido, fa da contro altare, una esibizione vocale da parte di Mr. Tom “Thank You Very Much” Araya davvero afona ed inefficace, carica di imbarazzanti presagi in merito alla possibile durata del concerto.Fortunatamente, dopo il rodaggio concesso da “Cult”, il monolitico singer sudamericano carbura a dovere, iniziando, con buona pace dei presenti, a sfornare una prova degna di nota, ricca della tensione ferale e lancinante tipica dello Slayer sound.Il pezzo da novanta è, infatti, già dietro l’angolo e si manifesta sotto forma della enorme “Chemical Warfare”, brano riscoperto per l’occasione che avrà il potere, dopo qualche incertezza iniziale, di aizzare l’entusiasmo dei molti presenti, rappresentando il punto di non ritorno dello tsunami sonoro scatenato di lì a poco.

“Ghost Of War”, altra chicca, la devastante “War Ensamble” (con urlo iniziale da incubo notturno), “Jihad”, “Die By The Sword” e “Spirit in Black” metteno così, definitivamente, le cose in chiaro, spazzando via con una veemenza inarrestabile ogni possibile dubbio sullo stato di forma del gruppo di fuoco a stelle e strisce.Il Dave Lombardo dei tempi migliori, assatanato e precisissimo, gli onnipotenti Jeff Hannemann e Kerry King a dispensare vortici chitarristici e Tom Araya ormai di nuovo nella parte, sprezzante e ruvida, dell’invincibile frontman. Notevoli ad ogni modo le pause tra un pezzo e l’altro.
Le primavere si fanno sentire, ed anche per gli inossidabili Slayer è tempo, di tanto in tanto, di riprendere un po’ di fiato per meglio affrontare l’assalto successivo. La seguente “Eyes Of The Insane”, estratta da “Christ Illusion”, non è ciò che più si possa desiderare in una esibizione di tale valore. Il pezzo, infatti, non coinvolge più di tanto, rivelandosi il vero e forse unico “filler” della serata. Piglio sempre fiero e quadrato, ma brano di qualità inferiore. È solo un battito d’ali e già le successive “Supremist” e “Payback” riportano in alto la tensione, pronte a dare il via alla seconda parte dello show, autentico scrigno di classici e brani enormi, eseguiti con spettacolare bravura e determinazione.“Dead Skin Mask”, dal leggendario “Season in The Abyss” è preludio alla totale “Hell Awaits”, istante che, per molti, si rivelerà essere poi il più alto dell’intera serata. Che dire… suoni all’altezza, violenza allo stato brado e ferocia scatenata non lasciano scampo, tramutando gli incubi in solide realtà fatte di suoni e luci. Gigantesca! Il tempo di una ulteriore breve pausa (e del solito “Thank You Very Much” di Araya) e via con le urticanti “Postmortem” e “Captor Of Sin”, assalti all’arma bianca che ci riportano indietro con la memoria di più di vent’anni, quando quattro ragazzi appassionati di heavy, si erano messi in testa con solida determinazione di entrare nel mito, sfornando una serie di album oggi venerati come pietre miliari.
Fine della storia? Fortunatamente no, soprattutto per il sottoscritto. Dopo uno spontaneo coro da stadio, quasi da tifo calcistico (che a quanto è parso d’intuire, ha colpito lo stesso Araya, forse sorpreso da tale accoglienza), c’è ancora spazio per il gruppo d’elite, quello che, in fondo, ognuno attendeva e sapeva di dover fronteggiare a viso aperto. Brividi agghiaccianti e pelle d’oca da “scrostarci i muri”, le conseguenze dell’arpeggio iniziale della terrificante “South Of Heaven”, per chi scrive, summa massima dell’arte slayeriana, il pezzo che, da solo, vale un’intera carriera.

L’inferno sulla terra, un incedere inesorabile che puzza di morte e sa di terrore, qualcosa di indescrivibile capace di materializzare figure da discesa nel maelström… leggenda. A sublimare ulteriormente l’atmosfera da girone infernale, giungono come meteore i tre dardi finali, scagliati con inusitata potenza dalla macchina da guerra ormai senza freni: “Raining Blood”, “Mandatory Suicide” e la incontenibile “Angel Of Death”, chiudono in bellezza un attacco frontale esaltante, totale e memorabile. Poco da dire, gli Slayer si confermano una delle live band migliori del pianeta e la sera del 28 giugno i presenti ne hanno avuto un aggiuntivo saggio da tramandare ai posteri.Ottimi suoni, grande prova corale (personalmente, ho sempre i brividi nel vedere sul palco un fenomeno come Kerry King che, movendosi ritmicamente all’unisono con le bordate piazzate sulla sua sei corde, pare più una sorta di leviatano eruttato dall’inferno che un comune mortale) e scaletta pressoché ineccepibile, sono il contorno perfetto di una esibizione sontuosa. Peccato per lo scarso interesse manifestato da alcuni presenti, un po’ sonnacchiosi e forse, giustamente provati da una giornata al limite dello sforzo fisico. Quello che resta è comunque la certezza di aver assistito ad uno spettacolo unico che, dalla nostra postazione sulla collinetta antistante il palco, abbiamo potuto godere in tutta la propria grandiosità ed interezza, avvertendo, ora come un tempo, la sensazione di trovarci di fronte a qualcosa di inarrestabile ed immortale. Un’unica definizione dunque: immensi!

…e domani l’ultima giornata…