Recensione: …and the Word Was God

Nati nel 2018, dopo vari EP e singoli i Diatheke giungono finalmente a dare alle stampe il loro debut-album, intitolato “…and the Word Was God“.
Una gestione lunga, quella necessaria a elaborare le coordinate stilistiche, che si spiega con la necessità di cementare assieme due generi ben distinti fra loro: il death e il progressive metal.
Più volte si è discusso di progressive death metal, ma in questo caso non è la fattispecie da considerare. Ciò poiché in “…and the Word Was God” sembrano coesistere due band come detto distinte. Per esagerare ma anche per dare l’idea, come se si fosse davanti a uno split fra Dismember e Dream Theater (sic!).
Il disco, per quanto riguarda le tematiche, è un concept in cui si affrontano le varie tappe dell’Umanità così come descritte dalle Sacre Scritture. Partendo dalla creazione, cioè, arrivando sino alla redenzione, così come dimostrano i titoli delle sei canzoni.
Canzoni assai lunghe, che si svelano nella loro estrema complessità compositiva a mano a mano che le si ascoltano, giacché portatrici di innumerevoli cambi di stile che, assieme, determinano la foggia musicale che caratterizza in modo quasi unico la formazione statunitense. Così come enunciato sin’ora, parrebbe di trovarsi di fronte a un guazzabuglio di note senza capo né coda. Così non è grazie alla ridetta capacità di scrittura dei Nostri, in grado di giocare con naturalezza sia con la parte tenebrosa, sia con quella eminentemente solare.
Molto importanti, nello sviluppo del dualismo fra death e progressive, sono le linee vocali. Esse comprendono voce pulita, growling e nondimeno harsh vocals; che s’intersecano fra loro fornendo quindi il cemento per legare assieme i frutti del dualismo suddetto. Si può pertanto assistere a segmenti di clean vocals / growling /harsh vocals, magari mentre si scatenano ondate di blast-beats (“The Coronation“). Il che, va da sé, non è proprio roba da tutti i giorni, anzi.
Con la sensazione che nulla sia dovuto al caso. Al contrario, tutto dà l’idea che il platter sia stato studiato, e a lungo, a tavolino. Mettere assieme quelle che praticamente sono suite dal notevole minutaggio non è cosa da tutti. Anche perché si percepisce con chiarezza che il combo texano non si perda mai in se stesso. Un pericolo concreto, data l’enorme quantità di musica che vive e vegeta nell’LP.
La strada maestra è ben segnata, insomma, e di questo ne beneficiano i brani. Davvero accattivanti, in certi momenti trascinanti come lo stupendo chorus finale della già menzionata “The Coronation“, ove si aggiunge una quarta fattispecie canora, e cioè un’eterea voce femminile. Song che non sono mai stucchevoli né sdolcinate. Con che “…and the Word Was God” non è certo adatto al mainstream ma piuttosto dedicato ai veri appassionati di metal a 360°. Che non abbiano alcun pregiudizio nell’osservare un’ugola scabra che s’intona con qualche armonizzazione di tastiere o, addirittura, con qualche orchestrazione.
Del resto, inoltre, c’è da considerare che i Diatheke pestano duro. Sì, ovvio, le parti più ragionate, più riflessive ci sono, purtuttavia l’indole dell’opera è dura, aggressiva, a tratti cattiva, musicalmente parlando. Come accade in alcuni frammenti in cui la chitarra ritmica erige un massiccio muro di suono grazie ad accordi ribassati e stoppati, compressi dalla tecnica del palm-muting (“The Creator“). Chitarra che svolge anche una cospicua parte solista, con alcuni assoli assolutamente pregevoli (“The Redeemer“) che definiscono una band completa in tutto e per tutto: brava a inventare, brava a eseguire.
L’atipicità della proposta può far gola agli amanti sia del death metal, sia del progressive metal. Ma non solo. “…and the Word Was God” è un lavoro talmente… enorme che a ogni passaggio svela sempre qualcosa di nuovo. E di buono. Grazie, si ripete, alla bravura di un act da tenere d’occhio in futuro: i Diatheke!
Daniele “dani66” D’Adamo