Recensione: Another Open Road
A guardare il logo impresso sulla copertina non è possibile cadere in errore, colpendo immediatamente nel segno.
Dannatamente simile a quello della Michael Thompson Band. Andiamo a botta sicura: band dedita a rock melodico, quanto meno.
Se la somiglianza con il simbolo del celebre autore di “How Long” sia voluta resta tutto da dimostrare, quello che è davvero certo ed indubitabile è che, in effetti, gli Another Open Road propongono davvero melodic rock con infatuazioni ottantiane, tanto evidenti da essere riconosciute dopo quindici secondi netti.
E diciamolo: fa sempre molto piacere scoprire nuove realtà che decidono di intraprendere la strada del successo, affidando le proprie speranze ad un genere solo all’apparenza agevole come l’AOR.
Ci vuole classe. Ci vuole istinto immediato per la melodia. Ci vogliono doti di songwriting che riescano ad accomunare la ruvidezza del rock con la capacità di sognare ad occhi aperti.
Mica facile. E proprio per questo, sempre meritevole di pieno appoggio.
Nati non molto tempo fa, intorno al 2011, gli Another Open Road sono essenzialmente il progetto di Antonio e Pierluigi Guerrieri, copia di fratelli “tuttofare” che ha sin dal principio coltivato l’ambizione di dare alla luce un album devoto alle proprie muse assolute, collegate in modo inscindibile con la melodia e le ambientazioni tipiche di tre decadi fa.
Un percorso probabilmente un po’ travagliato che ha condotto alla realizzazione del primo capitolo in carriera – del tutto autoprodotto – solo sul finire dello scorso anno: un platter omonimo dalla confezione alquanto curata, che non ha di certo nella lunghezza e nella quantità del materiale la propria arma specifica, preferendo fermare il minutaggio non oltre la mezz’ora scarsa, per un totale di sette tracce complessive.
I ragazzi hanno talento, non v’è dubbio: la ricerca melodica a cui si faceva accenno poco sopra, pare ben avviata, così come appare intrisa di suggestioni romanticamente retrò l’anima “pura” della band, coinvolta in un sound devoto a Toto, House Of Lords, Hardline, Treat ed agli stessi MTB, laddove le tastiere, assumendo ruolo da protagonista, si legano ad un lavoro di chitarra che è senza dubbio alcuno la vera marcia in più del disco, in forza di assolo sempre costruiti con tecnica e notevole gusto.
Manca tuttavia ancora qualcosa per poter pensare in grande. La produzione, oltre ogni cosa.
In particolar modo quando riferita alle vocals del buon Antonio Guerrieri.
Nulla da biasimare in merito ad intonazione e modo d’interpretare i brani. Sono proprio i livelli di missaggio di lead e back vocals a rendere fangosa e poco incisiva la performance che, spesso, appare così “annegata” dai restanti strumenti e di conseguenza poco efficace.
Con suoni utili nel garantire maggiore spicco ad ogni fondamentale (e come detto, alla voce!), una coppia di brani come “Touch The Heaven” e “What We Dream” sarebbero, ad esempio, preda ambita di ogni buon AOR maniac: grande lavoro con le armonie, buon ritornello, tappeto tastieristico di livello e consueto ottimo assolo di chitarra. Peccato per la voce, trascinata, in secondo piano. Resa in modo da apparire quasi “canticchiata”.
Un aspetto che risalta in modo particolare nella conclusiva “Playing With Fire”, traccia in cui un professionista come il bravo Federico Mazza (singer degli Asgard) sembra persino fare un po’ di fatica nell’inerpicarsi agevolmente sulle tonalità alte.
Peccatucci che si smorzano, in ogni di modo, allorquando si scopre che questo, dopo tutto, è un disco autoprodotto che rappresenta l’esordio assoluto per la band tricolore.
Con tutti i margini di miglioramento che gli Another Open Road mostrano di avere, non possiamo far altro che supportare al massimo l’avventura appena cominciata dei Guerrieri Brothers, sperando che – come sempre si sottolinea in questi casi – la pubblicazione di questo primo capitolo non sia da considerarsi un arrivo, ma piuttosto un accettabile punto di partenza sul quale lavorare alla ricerca del meglio.
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