Recensione: Backbone

Di Carlo Passa - 25 Ottobre 2025 - 10:12
Backbone
Etichetta: Frontiers Music Srl
Genere: Heavy 
Anno: 2025
Nazione:
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65

I Large Language Model, ovvero l’ossatura dei sistemi attuali di Intelligenza Artificiale, sono stati definiti da Emily Bender dei “pappagalli stocastici”: su base probabilistica, ripetono correlazioni che hanno imparato in fase di addestramento. La creatività dei Large Language Model è, dunque, limitata, perché analoga a quanto i modelli hanno trovato nell’insieme dei dati su cui sono stati sviluppati. Ecco perché l’IA è efficacissima nel produrre cloni in tutto simili all’evidenza da cui ha imparato: e chi non ha mai letto la Divina Commedia può davvero stupirsi davanti a un poema in tre Cantiche scritto in Italiano Antico da ChatGPT.

Peccato che il recensore sia cresciuto a pane e Rainbow, acqua e Black Sabbath, birra e Deep Purple: e non può esimersi dal considerare il pur bravo Ronnie Romero un eccezionale pappagallo stocastico. Sì, perché Backbone è talmente derivativo da sembrare scritto da un (eccellente, ammettiamolo) modello di IA. I pezzi sono perfetti esempi delle varie sfaccettature che l’hard & heavy ha assunto tra la metà degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta. Nel disco troverete, ovviamente, sonorità caratteristiche dei Rainbow ed eco esplicite del vocione di Ronnie James Dio, che sembra uscire dall’impianto stereo in pezzi come Bring The Rock, o Lonely World. Addirittura si scomoda la magica penna di Russ Ballard (uno che ha scritto Since You Been Gone e I Surrender per i Rainbow) in Hideaway (Run), un hard rock che suona davvero molto anni Ottanta.

Lost In Time è una ballatona epicheggiante che non può non richiamare i Deep Purple più pomposi, o i Black Sabbath del periodo di Tyr. Keep On Falling parte più intimista, per sfociare in un mid-tempo cadenzato e, infine, in una galoppata impreziosita da un eccellente assolo di chitarra. Meritevole di segnalazione è anche Black Dog, che ha un bel tiro e una doppia cassa che spacca.

Insomma, nel complesso, Backbone è scritto, prodotto, suonato e cantato talmente bene da scadere nello stereotipo e, in ultima istanza, rischiare di diventare una parodia del genere che vorrebbe celebrare. Indubbiamente, Ronnie Romero ha una gran voce e sa circondarsi di grandi nomi, ma forse dovrebbe limitare il proprio presenzialismo e il tributarismo smaccato (incidere addirittura due album di cover hard & heavy è stato eccessivo). Alla fine, basta poco per fare la figura della macchietta e, più gravemente, farla fare al genere che si propone. Backbone potrà certamente piacere a molti, soprattutto a coloro che ignorano le sue fonti d’ispirazione e che, forse, saranno convinti da Ronnie Romero ad andare a spolverare i dischi dei propri padri, trovando un Bent Out of Shape, un Heaven and Hell, un Holy Diver, o un Headless Cross. In quei solchi troveranno l’anima dell’hard & heavy più puro. E allora capiranno che in Backbone c’è tanto mestiere, ma poca freschezza e, in ultimo, poca personalità.

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