Recensione: Backbone
Ronnie Romero. Un cantante dalle indubitabili, enormi, doti tecniche, capace di divorare le note e mangiare letteralmente il microfono.
Con un talento tuttavia, che ai detrattori potrebbe a volte apparire un po’ troppo sfruttato e disperso su di una serie di uscite di qualità media. Che, invece di renderlo davvero esclusivo, rischiano talora di farlo diventare comune. Quasi scontato.
Al contrario, agli occhi dei fan del genere che Romero persegue da sempre con eccezionale pervicacia, la testardaggine nel rimanere ancorato ai dettami sacri di Rainbow, Uriah Heep, Deep Purple e soprattutto Ronnie James Dio, lo rende uno dei pochi “veri” romantici rimasti a cui aggrapparsi con forza.
Come l’ultima ridotta di un modo di far musica antico. Come l’ultimo (o perlomeno, uno degli ultimi) irriducibile fautore di un suono passionale, caloroso e fuori dal tempo.
“Backbone” è esattamente questo. La conferma della perseveranza di Romero nel riproporre con energia le sonorità heavy rock più classiche, mantenendo una grande coerenza stilistica ed una qualità di esecuzione impeccabile.
L’album si apre con la potente title track “Backbone”, che proietta subito l’ascoltatore nell’immaginario peculiare dello stile di Romero: riff decisi, una voce sempre protagonista e la sensazione di trovarsi davanti a un sound raffinato ma fortemente ancorato alla tradizione.
Brani come “Bring The Rock” e “Never Felt This Way” puntano sulle doti vocali del cantante e su una sezione ritmica solida, mentre “Lost In Time” e “Keep On Falling” aggiungono note melodiche che donano dinamica all’opera. “Hideway Run“, pezzo nato in sinergia con un nome eccellente come Russ Ballard, ed impreziosita dalla chitarra di Kee Marcello, ha nei cori e nella linea melodica i punti di forza. Forse il momento migliore del cd.
Niente male. Un bel viaggio nel tempo che non manca di destare consensi.
Nell’arco della tracklist, si rilevano però episodi meno ispirati. “Lonely World”, risulta un po’ piatta e scolorita rispetto alle altre tracce, mentre “Eternally” è un passaggio non brillantissimo, leggermente stiracchiato e manieristico.
“Black Dog” – nel titolo, evidente omaggio ai Led Zep – rialza i giri, chiudendo il disco con una cavalcata metal decisamente impetuosa e torrida.
Dal punto di vista del songwriting, “Backbone” mostra una certa mancanza di originalità, lo abbiamo già lasciato intendere più volte.
La struttura dei pezzi resta fedele ai canoni del genere senza particolari guizzi innovativi. L’album compiace i fan di Romero per la sua energia e la qualità tecnica, ma lascia qualche dubbio sulla voglia di osare ed esplorare nuove soluzioni sonore.
Problema relativo: siamo certi che a Ronnie va benissimo così.
La sua ugola abrasiva canta i brani con un trasporto quasi inumano, tanto da immaginarlo completamente esausto al termine della registrazione di ogni pezzo.
Questione di attitudine. Forse mancheranno guizzi d’originalità, ma la veemenza con cui le canzoni vengono letteralmente urlate in faccia all’ascoltatore, lasciano intendere una passione ed un amore per il proprio lavoro senza eguali.
“Backbone“, secondo solista per il frontman cileno al netto di due collezioni di cover, è un album ben fatto, piacevole per chi ama la voce di Romero e il sound seventies. Suonato divinamente da un nucleo di musicisti di grande preparazione.
Ma è in parte privo di quella scintilla che lo renderebbe davvero memorabile.
Un disco che farà felici gli appassionati di heavy rock classico e i fan della voce intensa di Ronnie Romero, ma che difficilmente conquisterà chi cerca innovazione o profonde emozioni inedite.
Un lavoro solido, coerente, ma sostanzialmente tradizionale.
Nel bene. E nel male.
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