Recensione: Cult of Uzura

Ispirandosi ai leggendari miti inventati da H.P.Lovecraft, gli Skaphos mettono in scena un concept-album dal titolo “Cult of Uzura“, terzo full-length in carriera della formazione transalpina.
Le tematiche affrontate non sono certo originali, ma l’epopea dei Grandi Antichi è così intrigante e ramificata che non giunge mai il momento di dire «basta». E così è per la title/opener-track che, in pratica, è una fervente invocazione al dio che alberga negli oceani della Terra, almeno secondo lo scenario ideato dai Nostri.
È chiaro che dei testi siffatti richiedano la presenza, nel sound, di un umore arcano, a volte quasi estatico, seppure cupo e oscuro, in alcuni tratti addirittura tenebroso (“One Eyed Terror“). Sì da esigere un genere che, seguendo gli ultimi sviluppi del metal extra-estremo, si può definire atmospheric death metal. E così è, poiché l’LP è tutto, fuorché privo di spunti emotivi travolgenti, di coaguli viventi di paure ancestrali, di terrore allo stato puro.
Per riuscire nell’impresa, il quartetto di Lione sviluppa il ridetto sound trascinandolo in aree ove riesce a entrare solo chi ce la fa a sviluppare altissimi valori di decibel. Conseguentemente, in molte occasioni, i BPM sfondano la sfera del suono grazie al turbinio dei blast-beats generati dalla forza del batterista Nathan Faure. Non solo questo, però: la perizia tecnica posseduta dagli attori è di primissimo livello, in grado, quindi, di scivolare sulla scala dei ritmi con precisione chirurgica. Con che, rallentando sino alle battute retaggio del doom o accelerando sino a stordire per via della sensazione di trance che si prova quando il cinetismo dell’insieme diverge verso quella della luce (“Hypoxia“).
Tanto è vero che non ci sono brani solo lenti e tantomeno solo veloci. Ognuno di essi è concepito per contenere in sé una selva di passaggi, a volte anche complessi, partoriti dallo spaventoso drumming di Faure (“Abyssal Tower“). Accanto a lui, l’immane lavoro svolto dalle chitarre di Stephan Petitjean, anche cantante principale, e Jeremy Tronyo. Il loro rifferama è parecchio difficile da digerire per via di una monumentale quantità di accordi distorti, stoppati dalla tecnica del palm-muting, che assieme realizzano una spaventosa catena montuosa sottomarina; tenuta assieme, a mò di cemento pozzolanico, dalle cuciture del basso di Theo Langlois.
Un discorso a parte per la voce, che di solito affronta le linee vocali con un roco, possente, stentoreo growling, figlio dell’axeman Petitjean. Accanto a lui operano anche Tronyo e Langlois quali backing vocals declinanti nello screaming più scellerato, quando la vicinanza al black metal si fa davvero minima. Tutto quanto per donare varietà alle linee vocali medesime, in modo che non risultino tediose.
Tornando al discorso della visionarietà e sull’abilità di creare atmosfere concrete, che si possono toccare con una mano, il grande esempio contenuto nel disco coincide con la strumentale “Of Shores and Dripping Souls“, in cui le chitarre classiche arpeggiano mondi subacquei immaginari galleggiando sulle languide onde di un mare lontano, reso triste e malinconico dal suono di un violino.
Le canzoni sono tredici, per cui il soggetto dei testi viene sviluppato in profondità, e con esso la musica che, con le sue diramazioni non-lineari, attiva le parti più nascoste della mente umana per una percezione della realtà totalmente lisergica. Il piacere di affondare nella marea sollevata da un suono totalmente privo di melodia è pertanto completo. Il che accade, come più su suggerito, quando la band tricolore spinge con tutta la sua forza sull’acceleratore della dissonanza. Ma anche quando il rallentamento è repentino (“The Alchemist“), sconquassando in tal modo le budella.
La scuola francese, nell’ambito del metallo oltranzista si è fatta notare, negli ultimi anni, per un movimento black e death metal di prim’ordine, con molte formazioni salite alla ribalta dei media specializzati mondiali. Con gli Skaphos che, senza dubbio, fanno parte di questo… ammasso roccioso transalpino.
Devastanti.
Daniele “dani66” D’Adamo