Recensione: Fanciulli d’occidente
L’underground è un po’ come la montagna di Erebor: può nascondere grandi insidie, come il drago Smaug, ma allo stesso tempo, tesori di inestimabile valore, come quello dei discendenti di Thror.
Ed è un po’ il discorso che vale per i Laetitia in Holocaust, band modenese formatasi nel 2001 da un’idea di Stefano G. e Nicola D.A., con alle spalle quattro full-length, tra i quali proprio l’ultimo, Heritage, li aveva in un certo senso fatti notare con un’opera di grande personalità rispetto a quanto proposto in precedenza.
Dopo quattro anni, i Laetitia in Holocaust si riaffacciano sulla scena con il nuovissimo Fanciulli d’occidente, un titolo che da un lato è un richiamo all’universo di Tolkien e dall’altro un forte riferimento alla tradizione dell’antica Roma, soprattutto ponendo l’attenzione all’artwork: un’immagine in bianco e nero di un pugno chiuso, che tiene in mano un coltello e una corona d’alloro, su uno sfondo di un campo aperto.
Il disco è composto da sette brani per quasi 38 minuti di durata, con una produzione low-fi che va tanto a premiare l’aspetto più raw – al punto tale di dare l’impressione di esser stato registrato in presa diretta – quanto ad esaltare il lato prog, che enfatizza le linee di basso: l’incipit di Figli d’occidente, Celestial Buried, è un chiaro manifesto di ciò che andremo ad ascoltare. Con Earth As Furnace si comincia a pestare di brutto, i ritmi più serrati, le sonorità più spigolose e dei meravigliosi passaggi di basso sono il corollario di un brano molto violento, che morde le nostre orecchie. Murmurs Of Faith ha una meravigliosa apertura dissonante di violino, che genera un oscuro fascino – abbiamo già visto l’incidenza di questo strumento in band come i Ne Obliviscaris, che ne hanno fatto un vero e proprio marchio di fabbrica – che incide nettamente sul mood del pezzo, emotivamente seducente quanto disturbante. Con Julivs Caesar Germanicvs i musicisti hanno la possibilità di esprimere il loro valore, in questo brano strumentale che esalta il lato prog e le capacità armoniche, tra vari passaggi di tempo. Che la sezione ritmica dei Laetitia In Holocaust fosse di notevole livello era ben chiaro, ma con l’intro di Devotio questo concetto diventa lapalissiano: avvolgente, e meravigliosa, ne diventa l’oscuro battito. A Dancestep Of Tate è un tuffo nel passato, con un arpeggio epico dal sapore antico: un riuscitissimo lento prog che palesa le abilità compositive delle chitarre dei Laetitia In Holocaust. Si chiude con il brano migliore del disco, From Plowshares To Swords: un feroce quanto brutale assalto iniziale moderato da una lenta regressione, con un passaggio molto tecnico che serve solo ad acuirne il lato più doloroso, come un coltello che dopo un graffio superficiale e fastidioso, affonda il colpo, provocando un dolore lancinante.
Fanciulli d’occidente è un monito per le generazioni attuali, poiché, attraverso l’esaltazione della sacralità dei valori europei, si evidenzia il fatto che essi non possano essere perduti; dall’altro lato c’è un auspicio, ovvero quello di essere degni del sangue versato dai figli dell’occidente e di conseguenza del loro lascito. Il concetto viene espresso in musica in modo egregio, attraverso una varietà di suoni e melodie notevoli, mordendo le orecchie dell’ascoltatore con suoni molto aspri.
Un disco maturo, pieno di personalità e di idee ampiamente e compiutamente sviluppate, rispetto ad Heritage che pone, finalmente, l’attenzione sui Laetitia In Holocaust.
Bravi.